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Sudan, gli “eredi” dei Janjaweed stuprano i civili: le testimonianze a Human Right Watch

“Abbiamo trattato il caso di una madre e delle sue quattro figlie, violentate di fronte al padre e ai fratelli. Non sono state in grado di lasciare la loro casa perché i miliziani della Rapid Support Forces le hanno messe agli arresti domiciliari. Queste donne sono state stuprate ripetutamente per giorni. Una delle figlie era incinta, quando sono riuscite a contattarci”. È una delle testimonianze raccolte da Human Right Watch per divulgare gli stupri come arma di guerra in un conflitto dimenticato: quello del Sudan.

Tra settembre 2023 e febbraio 2024, Human Rights Watch ha condotto 42 interviste con operatori sanitari, assistenti sociali, consulenti, avvocati e volontari dei servizi di emergenza. Tra loro, 18 tra medici e infermieri hanno confermato di aver fornito assistenza diretta e supporto psicologico a 262 sopravvissuti a stupri, avvenuti tra aprile 2023 e febbraio 2024.

La guerra civile in Sudan vede come protagonista uno dei personaggi che ha costruito la sua fama in quel clima di violenza: si tratta di Mohamed Hamdan Dagalo; molti lo conoscono come Hemetti. Dagalo è generale della tribù Mehriya, con un passato anche politico: è stato, nel 2019, vice presidente del Consiglio di Transizione. Il nome di Hemetti è legato a quello dei Janjaweed, la milizia che si è resa responsabile di massacri e violenze sessuali nel Darfur meridionale. Nonostante tutto, Dagalo ha continuato a dettare legge e nel 2013 ha formato le Forze di Supporto Rapido, un esercito personale che serve a mantenere i suoi interessi che spaziano dal commercio di materie prime alla gestione di miniere: per The Economist, fino al 2019 Dagalo era tra le persone più influenti del Sudan.

Il 15 aprile 2023, a Khartoum, scoppia il conflitto tra le Forze armate sudanesi (SAF) del generale Al Burhan e le forze di Dagalo. Secondo le indagini dell’Onu, a sostenere Dagalo ci sono gli Emirati arabi. Da allora, la capitale è terra senza legge dove stupri e saccheggi sono roba quotidiana. E si arriva al dossier di Human Right Watch, pubblicato alla fine dello scorso luglio: “Le RSF si sono trincerate nelle aree residenziali di Khartoum, dove hanno occupato case, aziende e infrastrutture essenziali, in particolare strutture sanitarie. Nelle aree su cui esercitano il controllo, le RSF hanno commesso gravi violazioni del diritto umanitario internazionale, tra cui diffuse violenze sessuali e di genere, nonché detenzione e confinamento illegali di civili e saccheggi”.

L’inchiesta dell’organizzazione umanitaria sottolinea che “le parti in guerra hanno sottoposto donne e ragazze, di età compresa tra 9 e almeno 60 anni, a diffusa violenza sessuale, tra cui stupro e stupro di gruppo. Donne e ragazze sono state anche sottoposte a matrimoni forzati e matrimoni infantili. Anche uomini e ragazzi sono stati vittime di violenza sessuale”. Le conseguenze sono devastanti: donne, uomini, minorenni sopravvissuti hanno evidenti sintomi di stress post-traumatico e depressione, pensieri suicidi, ansia, paura. Particolarmente drammatica una testimonianza riportata nel dossier: “Ho parlato con una sopravvissuta che è stata violentata e aveva appena scoperto di essere incinta di 3 mesi – ha raccontato uno psichiatra che ha supportato oltre 40 sopravvissute allo stupro tra aprile e novembre 2023 – era traumatizzata e tremava, aveva paura di come avrebbe reagito la sua famiglia. Mi ha detto: se scoprono la mia situazione, mi uccideranno”.

HRW ha chiesto spiegazioni con una lettera alle Rapid Forces: il 23 luglio scorso, il portavoce di RSF, il tenente colonnello Al-Fateh Qurashi, ha risposto che la forza rapida “ha sempre preso tutte le misure necessarie per prevenire la violenza sessuale e tutte le altre forme di violenza che costituiscono violazioni dei diritti umani” ed è “strettamente impegnata a rispettare tutte le convenzioni e i trattati internazionali relativi ai diritti umani e al diritto internazionale umanitario”. L’ufficiale ha respinto le affermazioni secondo cui RSF occupi ospedali o centri medici nelle tre città dello Stato di Khartoum. Secondo una ricostruzione elaborata da Al Jazeera, l’accanimento dei miliziani di Dagalo è legato al fatto che la maggior parte dei combattenti delle Forze Rapide proviene dalle tribù nomadi del Darfur e del Kordofan, due province storicamente trascurate e sfruttate dalle élite politiche di Khartoum.

Nel 2003, durante la prima guerra del Darfur, le milizie “arabe” Janjaweed (poi ribattezzate RSF) hanno sfollato i “non arabi” dalle loro terre, saccheggiato e bruciato mercati e ospedali e sottoposto le donne a violenze sessuali. Anche in quel frangente Human Right Watch denunciò gli stupri. Sono passati 21 anni, e gli eredi dei Janjaweed continuano a seminare il terrore; ma, in questo caso, nessuno lancia lo slogan “all eyes on Khartoum”.

L'articolo Sudan, gli “eredi” dei Janjaweed stuprano i civili: le testimonianze a Human Right Watch proviene da Il Fatto Quotidiano.

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