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Sartor: «Io, Raiola e quei colpi di kalashnikov contro l’auto: 25 anni dopo ci penso di continuo»

La divisa, per un poliziotto, è prima di tutto onore e bellezza. Quando si macchia di sangue, solo pericolo e disperazione. L’agente scelto triestino Vincenzo Raiola, oggi, avrebbe indossato però l’abito buono. Se in via Imbonati a Milano un proiettile esploso da una macchina guidata da assassini non l’avesse trapassato ad appena 26 anni, la metà di quelli altrimenti festeggiati in queste ore, sarebbe qui a raccontare alla famiglia, al fratello Roberto, gli aneddoti d’una vita in prima linea, che aveva scelto. Arresti rocamboleschi, encomi, chissà.

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Il tempo dilatato, sono passati 25 anni da quel conflitto a fuoco – l’assalto al portavalori di una banda di rapinatori armata fino ai denti, con esplosivi militari e fucili d’assalto –, non lenisce il dolore per l’uccisione. Nel suo compagno di volante, che guidava l’Alfa 155, l’immagine di quella maledetta alba resta intatta. Lui è sopravvissuto. Denis Sartor, nato a Monfalcone, 49 anni, non ha cambiato mestiere. È sovrintendente di Polizia: lavora nell’Antidroga e Antimafia, insegna alla Scuola allievi agenti di Trieste, intitolata a Raiola. E racconta, intervistato, le prime ore di quel 14 maggio 1999. Il collega morì 10 giorni dopo al Niguarda. I medici non ce la fecero a salvarlo.

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Cosa resta di quell’alba?

«Vincenzo steso a terra, in una pozza di sangue. È indelebile. Stava a 50 centimetri da me».

E prima dell’assalto?

«Il turno era iniziato alle 24. Mancava poco alle 7, la fine. Una notte tranquilla, non accadeva nulla. Con l’altra volante, la Niguarda, c’eravamo trovati in un park vicino a via Imbonati. Io, Vincenzo e Mauro, l’altro collega, stavamo sulla Comasina. Alle 4.30 aprirono i forni, prendemmo una pizza».

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L’ultimo pasto, poi l’inferno.

«Sì. Vincenzo aveva scelto di guidare tutta la notte. All’indomani sarei dovuto rientrare a Monfalcone, così mi disse: “Poi andrò a dormire, tu invece devi metterti in viaggio: guido io”. E lo fece fino alle 5. Consumata la pizza, mi offrii di sostituirlo. Era la fine del turno. L’ora della prima chiamata».

Questo le ha salvato la vita.

«Già. Si mise dietro, al mio posto. Neanche un minuto e giunse la chiamata al 113. Bisognava fare attenzione: c’era un uomo armato in via Imbonati. Seguirono quindi le altre, forse 20. Telefonate drammatiche, con spari in sottofondo, gente che urlava di nascondersi o li avrebbero uccisi».

Il terrore.

«Un assalto con kalashnikov e ordigno al plastico. Ma l’innesco per far saltare il portavalori coi 5 miliardi, fece cilecca. La Scientifica disse che fu un bene: sarebbe venuto giù il palazzo. Troppo esplosivo».

Correste lì?

«Sì. Vedevo la scia dei proiettili traccianti: dentro l’ogiva c’è in genere una polvere che marca la traiettoria. Serve a sparare più precisamente. Ebbi il tempo di dire al collega: “Guarda quella macchina!”. Fu un attimo: mi misi di traverso per tagliare la via di fuga. Non ci riuscii del tutto e col senno di poi meglio così, perché comunque i quattro attaccarono a scaricarci addosso tutto il fuoco di cui disponevano. Un macello».

L’auto fu crivellata?

«La volante fu attinta da 8 colpi, uno sul tetto. Scendemmo. Io fui coperto dal cofano, Vincenzo dall’abitacolo e Mauro scoperto sulla via: ebbe fortuna, come me, si buscò “solo” tante schegge alla gamba. Ma Vincenzo fu centrato. Dai rilievi, il colpo che lo ferì mortalmente pare rimbalzò sul montante della porta: parte del proiettile gli si conficcò in testa. Lì per lì non m’accorsi neppure d’esser stato preso. La cartuccia trapassò la gamba sinistra, alla caviglia, senza leder ossa. Quella notte mi tenne su l’adrenalina. Crollai poi. Riuscii a sparare tre colpi, ma non servì a nulla perché la vettura dei criminali era blindata. Mauro ne esplose 5 con la mitraglietta. Vincenzo era già a terra. La banda ci aveva scartato e sorpassato. Trenta secondi, un minuto. Istanti. Ma è lungo, un minuto, in certe condizioni».

Quindi cosa fece?

«Mi gettai su di lui, lo chiamai. “Vincenzo, Vincenzo!”. Non rispose mai. Fu operato nei giorni seguenti diverse volte, finché i dottori spiegarono che non c’era più nulla da fare».

Da quanto lo conosceva?

«Ero a Milano dal 1995, vi tornai 3 anni dopo. Vincenzo arrivò a inizio ’99, tre mesi prima dell’assalto. Era nelle Fiamme oro: ci sapeva fare con lo judo. Prima era stato alla Polfer. Ma non gli piaceva, voleva essere nella volante, il massimo per un poliziotto. Milano insegna tanto, tutti volevano andarci».

Com’era Raiola?

«Ci vedevamo 4 giorni di fila: il quinto, riposo. E via da capo. Avevamo legato. Era uno sportivo, solare, desideroso d’imparare. Ascoltava e si affidava a quelli più esperti. Non si poteva non volergli bene. Era un bravissimo ragazzo, quello che tutte le donne vorrebbero sposare. Provai e provo un dispiacere enorme».

Come ha inciso tutto ciò?

«Negli anni ho avuto a che ridire con persone che facevano il lavoro un po’ alla buona. “Sì dai, tranquillo, non succede niente”. Non è vero. Succede. E dovresti metterlo in conto già dall’inizio. Alla mia classe di allievi agenti lo faccio presente. E tengo viva questa memoria. Possono incontrare criminali di una spietatezza non comune, in giro per l’Italia. All’epoca perfino i boss della mala milanese dissero che neppure loro avrebbero fatto una cosa del genere, e non si tratta di chierichetti...Poi, quella notte, noi tre non dovevamo neanche essere insieme. Era mancato qualcuno per malattia e dovettero rimescolare le volanti. Ero il più giovane e con più mesi in volante, pertanto finii lì. Non dico che mi sento in colpa, perché i cattivi stanno dall’altra parte, ma ero alla guida e tirai io il freno a mano per porre l’auto di traverso. Non posso non pensare a tutto questo, anche se sono passati 25 anni».

La scientifica recuperò 275 bossoli: che poteva fare, lei?

«È chiaro. Ma dimenticare è impossibile. Il ricordo è sempre lì, ogni 14 maggio. O nel giorno del compleanno di Vincenzo, oggi».

È importante, la memoria?

«Soprattutto per far capire a chi non fa questo mestiere, che non siamo noi, i cattivi. Siamo qui per fare del bene. E la gente se lo dovrebbe ricordare. Noi andiamo, quando gli altri scappano. Andrebbe apprezzato».

All’arresto vide i colpevoli?

«Mi avvisarono, non ci andai. Ero schifato, quella gente non meritava nulla. I colleghi mi mostrarono, però, quanto sequestrarono. Centinaia di migliaia di colpi di kalashnikov, fucili a pompa, bombe a mano, mine anticarro e antiuomo. Un arsenale racchiuso in armadietti da palestra».

Sono ancora in carcere?

«Quattro sicuramente sì, tra cui i due basisti. Credo siano ancora a Opera, se non li hanno spostati. Altri sono fuori o ai domiciliari. Tra i capi d’imputazione, tutti pesanti, un omicidio, 8 tentati omicidi, la tentata rapina, la detenzione di armi e tutto il resto».

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