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Cantieri, sanità, pensioni, scuola: Governo «in manovra»

Entro il 20 settembre, occorre presentare (anche a Bruxelles) il Programma strutturale di bilancio che ipoteca i nostri conti fino al 2027. E tra Superbonus e patto di stabilità, per il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti la strada appare molto stretta.

Settembre andiamo è tempo di... tagliare. È partita la transumanza dei capitoli di spesa - meglio sarebbe dire di risparmio, data la situazione - nel bilancio statale sotto l’occhio vigile di Daria Perrotta, la nuova ragioniere generale dello Stato, che debutta e affianca Giancarlo Giorgetti, ministro dell’Economia in quota Lega, ma che sarà costretto a deludere gran parte delle aspettative del suo partito a partire dalle pensioni. Perrotta deve far dimenticare in fretta il suo predecessore, Biagio Mazzotta, ora ai vertici di Fincantieri, che sul Superbonus non ci ha visto lungo. Proprio la misura che fu voluta de Giuseppe Conte, ancorché ridotto ai minimi termini per le pratiche future, è la più cospicua ipoteca sulla manovra di bilancio 2025: pesa per oltre 30 miliardi sul debito.

Entro due settimane, il 20 settembre, il governo deve presentare il Programma strutturale di bilancio che traguarda fino al 2027 e di fatto ha preso il posto della Nadef. Va spedito oltreché alle Camere a Bruxelles. Scriverlo è complicatissimo per tre ragioni: si parte da un Def - il Documento di economia e finanza - licenziato ad aprile privo di cifre perché la situazione d’instabilità e l’incertezza, allora, sul nuovo patto di stabilità non consentirono dettagliate previsioni economiche; fino al 12 settembre non è dato sapere cosa voglia fare Christine Lagarde sui tassi d’interesse ed è difficile aspettarsi qualcosa di molto buono; c’è l’incertezza economica complessiva legata ai conflitti, alla Germania che è impantanata - come ha raccontato Panorama nella sua scorsa storia di copertina -, ai costi dell’energia che tendono al rialzo a partire dallo stop alle estrazioni di greggio in Libia con immediata ripercussione sulle quotazioni del gas.

La fragilità tedesca e la possibile fiammata dei prezzi dell’energia possono indurre la numero uno della Banca centrale europea a non muoversi. Per la prima volta la Lagarde si trova a dover anticipare le mosse di politica monetaria rispetto alla Federal Reserve. Non avrà dunque il suggerimento di Jerome Powell che però - considerando anche che i due candidati alla presidenza Usa e, in particolare Kamala Harris, hanno bisogno di incentivi all’economia come del pane - ha già anticipato che inizierà ad abbassare i tassi. La presidente della Bce forse si limiterà a un taglio di un quarto di punto: quasi nulla. Il governatore di Bankitalia Fabio Panetta, parlando al Meeting di Rimini, ha amaramente constatato che spendiamo più per interessi che per l’istruzione e che nostra indefettibile priorità è abbattere il debito.

Sperare nella benevolenza di Bruxelles - soprattutto ora che la Germania vede crollare il suo export - è un atto di fede considerando che il mastino dei conti Valdis Dombrovskis, lettone che viene da un Paese dal Pil inferiore a quello delle Marche, è rimasto al suo posto. Giorgetti i soldi per accontentare gli euroburocrati li ha già accantonati: ci sono 12 miliardi previsti in manovra per soddisfare le tagliole del patto di stabilità. Anche se la procedura d’infrazione già aperta nei nostri confronti (ma siamo in ottima compagnia con la Francia e altri cinque membri Ue) è una gatta da pelare, considerando che c’è di mezzo anche la direttiva Bolkestein la quale riguarda sì i balneari, ma anche le centrali idroelettriche e farsi portare via fonti energetiche non è buona cosa. La manovra che il governo deve varare ha una cubatura attorno ai 25 miliardi di euro.

La stima fatta dall’osservatorio della Cattolica diretto da Carlo Cottarelli viaggia oltre i 30 miliardi. Sono in gran parte soldi che devono arrivare da tagli o razionalizzazione di spesa. L’esecutivo si muoverà di tre direttrici: abbassare (se si può) le tasse, tutelare i redditi più bassi pensioni comprese, incentivare il lavoro nella (giusta) convinzione che è solo espandendo la base contributiva che si pagano pensioni e spesa pubblica. Il capitolo degli investimenti è stato sfoltito fidando sul trascinamento del Pnrr anche se - come dice Giorgetti che vorrebbe prolungarlo otre il 2026 - assomiglia «a un vecchio piano quinquennale economico in stile sovietico». Il ministro ha in parte definanziato quattro miliardi di investimenti - dalla ricostruzione alle strade - spostandoli oltre il 2027, ha tagliato diversi fondi compreso quello da 30 miliardi complementare al Pnrr. «Raschiando» il barile, si sono trovati circa sei miliardi. Il resto va cercato.

Nei giorni scorsi Giorgetti ha chiesto ai suoi colleghi quattro miliardi di tagli nei vari dicasteri, altri 1,2 miliardi dovrebbero arrivare dagli enti locali. Aiuta il buon andamento delle entrate fiscali (più 17,5 miliardi nel primo semestre pari al più 7,5 per cento). C’è poi la speranza - assai contenuta - di un risparmio sugli interessi e di un recupero dell’evasione. Il ministro deve mettere in piedi la manovra di bilancio che ha alcune voci irrinunciabili a partire dalla Zona economica speciale del Sud che Giorgia Meloni vuole garantita ed estesa a ogni costo. Servono all’incirca 18 miliardi per confermare la decontribuzione e il taglio del cuneo fiscale per chi sta sotto i 35 mila euro lordi (sono 9,2 miliardi), la riduzione a tre delle aliquote irpef (4 miliardi), il superbonus per chi assume (1,5 miliardi) e la decontribuzione per il Sud (2,9 miliardi). A rischio, invece, il sostegno alle mamme lavoratrici. Un tema spinoso è quello delle pensioni. Accantonata Quota 41, si intende dilazionare l’erogazione dell’assegno per chi esce anticipatamente (42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini, 41 anni e 10 mesi per le donne) fissando la corresponsione del primo assegno a sette mesi dopo l’uscita dal lavoro. La Lega però vuole superare la legge Fornero, Forza Italia spinge per trattamenti minimi a mille euro, l’ufficio studi della Cgia di Mestre però fa sapere che in Italia si pagano più pensioni che stipendi.

Ancora, c’è il capitolo dello sfoltimento dei bonus (alcuni non saranno confermati e altri vengono rimodulati al ribasso: ecobonus, quello per gli arredi, bonus verde, sismabonus, bonus mamme, bonus tv) e delle deduzioni e detrazioni: le cosiddette tax expenditure che sommate valgono 105 miliardi e sono spalmate in 289 «azioni». Di certo vengono mantenute le detrazioni per interessi sui mutui prima casa, sulle spese sanitare e sulle spese per il lavoro. Ma sul resto si procederà di forbice. Tutto per ottenere tre risultati: aumentare l’occupazione, portandola al 68 per cento con la massima inclusione di donne e giovani; sostenere i redditi bassi - torna anche la social card da 500 euro - e incentivare la classe media con attenzione ai redditi fino a 50 mila euro. Ci si aspetta che i risultati del concordato preventivo (l’accordo che le partite Iva fanno col fisco accettando di pagare ciò che viene proposto) siano positivi. Così come è previsto un buon recupero dell’evasione fiscale visto che nel 2023 sono stati reperiti 24,7miliardi al di là di quello che sostiene il direttore dell’Agenzia delle entrate; per Ernesto Maria Ruffini col sistema elettorale proporzionale i cittadini pagano più volentieri le tasse!

Su tutto però aleggia, funesto, un acronimo: Ame, aliquote marginali effettive. Sono le tasse che si pagano davvero. Può accadere che per effetto della decontribuzione finanziata dal governo con la manovra si passi di scaglione. Basta intaccare la quota superiore di poche centinaia di euro per vedere azzerati se non addirittura diventare negativi i benefici attesi. In particolare questa preoccupazione diventa stringente adesso che si stanno aprendo le stagioni contrattuali. Il combinato disposto dell’aumento dei salari e degli sgravi potrebbe provocare questo effetto di «fiscal drag» che vanifica gli sforzi della manovra.

Da calcoli della Ragioneria dello Stato emerge che con ulteriori due miliardi di sgravi l’effetto si potrebbe sterilizzare, magari una volta riscritte in maniera più favorevole ai lavoratori dipendenti le deduzioni per la produzione del reddito. Si sta cercando perciò di convincere Bruxelles a consentire un’estensione dell’utilizzo dei fondi per lo sviluppo regionale, via già percorsa col decreto Coesione che ha finanziato gli incentivi all’occupazione.

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