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Festival di Venezia, asportare prostate e ritrovare il desiderio dell’amore nel delicato film norvegese “Love”

Come raccontare e vivere in maniera alternativa sessualità, desiderio e convenzionalità nelle relazioni mentre si asportano prostate a tutto spiano? Ci pensano l’urologa Marianne (Andrea Braein Novig) e l’infermiere Tor (Tayo Cittadella Jacobsen) protagonisti di “Love”, film norvegese diretto da Dag Johan Haugerud, colpo di biliardo finale con palla 8 in buca del Concorso di Venezia 2024. Nel giro di una decina di giorni di un dolce agosto nordico ad Oslo, Marianne e Tor assistono i pazienti maschi a cui viene diagnosticato e comunicato il cancro alla prostata.

Macchina da presa frontale rispetto ai malati attoniti, inebetiti, disperati, ora bisognosi di cure invasive per rimanere in vita. Preso poi a fine turno il traghetto per raggiungere un po’ di svago con amici o in solitaria in uno degli isolotti vicini, Marianne e Tor approfondiscono la loro conoscenza: single etero di mezza età sorridente e cordiale col mondo lei; gay magro e vagamente hippy sulla trentina altrettanto altruista e gentile lui. Entrambi sommessamente alla ricerca di soddisfare il loro piacere, Marianne si invaghisce con spontaneità di un geologo separato con figli proprio là sull’isolotto, Tor è affascinato da uno psicologo di mezza età triste e cupo, conosciuto grazie all’app di Grindr proprio sul traghetto che fa spola giorno e notte tra isole e terraferma. Ed è su quel traghetto che si sfoglia visivamente e narrativamente il delicato manuale per imparare ad amare anche quando l’aspetto carnale sfugge o le regole non scritte dei rapporti di coppia impediscono relazioni più libere.

Ritmato sullo sfogliare di una manciata di giorni come su un vecchio calendario a muro e giocato su un registro di tenue, gradevole continuo confronto tra colleghi, amici, amanti (mai un urlo, mai un insulto), “Love” richiama più o meno metaforicamente il trauma della malattia (e della sua cura) che rende sterile il maschio per rompere il conformismo imperante attorno a schematismi, consuetudini e pregiudizi sull’istituzionalizzazione sociale dei più intimi sentimenti dei protagonisti. Il film di Haugerud vive di piccoli gesti gentili, di parole dolci, di apprezzamenti e rispetto per l’altro, di tentativi coraggiosi dell’essere, di un sussurrio vitale che commuove. Nulla di cinematograficamente trascendentale, ma tanto di sinceramente intimo.

Il sesso scivola lieve e intenso perfino in mare in mezzo a barconi ormeggiati, le app di incontri casuali non vengono demonizzate come in ogni drammaturgia moralista che si rispetti, “Love” rimane comunque conficcato in un’etica luterana come quella norvegese che non ha mai posto obblighi stringenti su coppia e procreazione e che per una cultura generalmente cattolica come quella italiana risulta un mondo pressoché alieno. Poi certo, concedeteci anche una considerazione più terra terra: un ospedale dove ti ascoltano, ti seguono, ti sorridono anche quando il mondo ti cade addosso, e addirittura ti vengono ad aiutare a casa senza che tu l’abbia chiesto, per lo spettatore italiano potrà sembrare un paradiso. Incredibili le performance della Novig e di Jacobsen tutte modulate su una magica leggerezza fisica e una ipnotica potenza psicologica. Love è il secondo capitolo di una trilogia ideata da Haugerud che ha visto la sua prima puntata – Sex – in anteprima all’ultima Berlinale.

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