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Un fantasma aleggia sulle economie occidentali: la recessione

L’economia globale, Occidente in testa, non sta attraversando un periodo positivo, malgrado la narrativa ottimistica di media compiacenti. È un obbligo intellettuale leggere tra le righe e riconsiderare fonti seminascoste, per Hegel era la “preghiera del mattino dell’uomo moderno”, oggi è altro ma il principio è lo stesso. Si scopre così che un fantasma aleggia sulle economie occidentali: la recessione. È a proprio rischio e pericolo, non metterla in conto.

Negli Stati Uniti, la Federal Reserve di Dallas ha pubblicato uno studio che racconta di segnali economici all’apparenza marginali eppure significativi. Ad esempio, l’aumento delle vendite di salsicce. Rappresentano un sostituto più economico per le proteine di qualità superiore, cioè le famiglie americane meno abbienti riducono le spese alimentari, non potendo comprare carne. “Ci stiamo preparando alla recessione” è il commento dei produttori texani del settore.

Altri indicatori “insoliti” sono il calo nelle vendite di biancheria intima maschile, l’intensità degli annunci di reclutamento per i militari o – udite, udite – l’aumento dei corpi non reclamati negli obitori. Tutti segnali di un preoccupante deterioramento della situazione economica. Aneddotica tenuta in seria considerazione dagli scienziati dell’Economia comportamentale (la Behavioral economics, divulgata da Levitt e Dubner con “Freakonomics”): quando gli uomini iniziano a non cambiarsi le mutande, vengono attirati in percentuale crescente dagli annunci tv del Pentagono per reclutare soldati, e quando i cadaveri non vengono richiesti dalle famiglie per risparmiare sui costi del funerale, l’economia degli invisibili (come direbbe Papa Francesco) annaspa.

La Fed di Dallas accenna anche alla politica, o meglio alle ricadute economiche delle elezioni presidenziali di novembre. I due candidati, Harris e Trump, sono testa a testa nei sondaggi, ed è come se una ‘tempesta perfetta’ si stia preparando negli Stati Uniti, alimentata da un’estrema polarizzazione, dal negazionismo elettorale, dalla violenza politica, da una disinformazione dilagante, da procedimenti giudiziari senza precedenti (contro Trump, che promette vendette in caso di sconfitta, e soprattutto se fosse eletto lui). Il caos in America è destinato ad aumentare.

Anche in Europa la situazione economica continua a peggiorare. Secondo i dati PMI, l’attività industriale dell’eurozona è in contrazione, con la domanda che cala al ritmo più rapido da dicembre 2023, dopo una breve ripresa all’inizio dell’anno. In Francia, Germania e Spagna, gli indicatori PMI mostrano i peggiori valori del 2024, il che segnala crisi persistente. Gli analisti della Hamburg Commercial Bank descrivono un deterioramento continuo del settore industriale europeo negli ultimi tre mesi, “una recessione che sembra non finire mai”, “come se andasse avanti da 26 mesi”.

Per la prima volta in oltre un anno, le fabbriche europee hanno aumentato i prezzi di vendita, complicando ulteriormente il compito della Bce nel contenere l’inflazione. La dipendenza energetica dell’Europa dalla Russia ha portato a cambiamenti strutturali profondi e negativi, specialmente in Germania. Il rischio di una recessione a tutto campo nell’Ue è più concreto che mai, mentre gli strumenti tradizionali delle banche centrali, i tassi di interesse, sembrano aver perso la capacità di stimolare la crescita reale. Lagarde (BCE) e Powell (FED) sanno di non avere più quell’abituale ultrapotere, per anni incontrastato.

E poi c’è il “malato d’Europa”, la Germania, dove la produzione industriale ha subito un duro colpo a luglio, in gran parte a causa della crisi del settore auto. La produttività manifatturiera è scesa del 2,4% su base mensile e il calo per il 2024 supera il 5%. Il settore automobilistico si trova in enorme difficoltà. Come ha osservato Carsten Brzeski, capo economista di Ing: “I dati attuali sono una doccia fredda per chi sperava in una ripresa rapida”. Deutschland, un tempo pilastro dell’economia europea grazie a energia a basso costo e mercati di esportazione ben accessibili, deve trasformare radicalmente il proprio modello economico. La deindustrializzazione tedesca, fino a pochi anni fa considerata una minaccia teorica, è una realtà concreta. Le conseguenze geo-economiche per il resto d’Europa sono evidenti, visto che l’industria della Germania ha rappresentato per decenni il cuore pulsante dell’economia europea, superando quella di Italia e Francia messe insieme.

Robin Brooks, ex Goldman Sachs, economista di Brookings Institution, ha commentato la crisi dell’economia tedesca attribuendone la responsabilità all’ignavia del governo di Olaf Scholz, ora vacillante dopo le elezioni in Turingia e Sassonia, dove per l’ondata di ribellione antigovernativa ha stravinto la destra semi-filonazista. “In Germania non c’è crescita né nelle esportazioni, né nei consumi, né negli investimenti” ha scritto Brooks. Solo un anno fa, era più ottimista, vantava il Pil pro capite tedesco rispetto a Francia, Spagna e Italia. Ma la situazione è peggiorata drasticamente.

Il caso Volkswagen, che per la prima volta dopo 87 anni di attività sta considerando la chiusura di impianti, è simbolico di una recessione industriale profonda. La mossa del colosso auto rompe con una tradizione consolidata e avrà ripercussioni sulle relazioni con i sindacati e sull’economia di Berlino, a rischio sono circa 800.000 posti di lavoro, di cui 120.000 legati a Volkswagen.

Anche l’Italia non è immune da questa ondata di difficoltà economiche. Nel 2023 il reddito disponibile reale delle famiglie italiane è sceso di oltre sei punti rispetto ai livelli del 2008 attestandosi a 93,74. La premier Meloni e il suo ministro economico Giorgetti sono ‘più draghiani di Draghi’ – su economia e debito pubblico zero margini di manovra – ma la realtà è che il nostro Paese, per reddito disponibile, è penultimo nell’Unione Europea, davanti solo alla Grecia e lontano dal neo “malato d’Europa” (la Germania sta a 112,59, la Francia è n.2 a 108,75).

Il settore auto, uno dei più plateali simboli della crisi italiana, è al centro dell’attenzione, il ministro Urso a Cernobbio ha parlato di “collasso” e, tanto per cambiare, l’ultima notizia (negativa) riguarda Stellantis. La multinazionale italo-francese, sotto la guida dei manager di John Elkann, ha deciso di fermare temporaneamente la produzione nello stabilimento di Mirafiori, da metà settembre a metà ottobre. Gli ordini per la Fiat 500 elettrica sono in pratica esauriti, la storica fabbrica torinese rischia di restare operativa solo per pochi giorni fino a fine anno. E anche le prospettive per il 2025 vanno inserite nell’apposito file con un punto interrogativo.

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