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Delitto Pamio, ricorso in Cassazione per scagionare Monica Busetto

Salvare Monica Busetto dal carcere e da una condanna definitiva a 25 anni (per altro, 11 già scontati) per l’omicidio dell’anziana Lida Taffi Pamio, assassinata il 20 dicembre 2012 nella sua casa di Mestre: uccisa con 40 coltellate, il filo del decoder stretto attorno al collo, una palla di carta in bocca.

Un delitto per il quale Busetto si è sempre dichiarata innocente e che invece ha confessato Susanna Lazzarini, la donna arrestata nel dicembre del 2014, dopo aver ucciso - per non restituirle un prestito di appena cento euro - un’altra anziana: Francesca Vianello, amica con la quale la madre giocava a carte. Come con Taffi Pamio.

Liberare Monica Busetto è l’obiettivo che perseguono da anni gli avvocati Alessandro Doglioni e Stefano Busetto, che - dopo essersi visti respingere dalla Corte d’appello di Trento la richiesta di revisione del processo - hanno depositato un nuovo ricorso, questa volta alla Corte di Cassazione.

Sostengono che a Trento i giudici abbiano preso un clamoroso abbaglio.

Lo ricordiamo: per mesi l’omicidio di Taffi Pamio era rimasto senza un colpevole. Poi l’attenzione della Procura si era concentrata sulla vicina di pianerottolo, Monica Busetto: perquisita, da un cassetto dell’operatrice socio sanitaria era salta fuori una collanina d’oro spezzata. Una prima verifica medico legale disposta dalla Procura non aveva rivelato tracce di Dna. Poi la collana - insieme agli altri reperti - era stata inviata al laboratorio della Polizia scientifica di Roma, che identifica 3 picogrammi di Dna (quantità infinitesimale in medicina legale) e ne ricava per moltiplicazione un filamento di Dna che riconduce a Taffi Pamio.

È la prova che - per i giudici - inchioda Busetto. Per la difesa si è trattato di una contaminazione tra prove. Ma i processi si succedono e anche le condanne per la donna. Fino all’arresto di Susanna Lazzarini, che ammette il doppio omicidio. Per tre lunghi interrogatori racconta sempre la stessa storia: ha ucciso da sola e non conosce Monica Busetto.

Poi, all’improvviso, incalzata dalle domande dei pm, Lazzarini cambia versione e dice che Busetto sarebbe entrata in casa nelle fasi finali dell’aggressione, offrendosi di dare addirittura il colpo mortale.

Di certo, la traccia di Dna rimasto per anni “ignoto” trovato sulla scena del crimine un riscontro sicuro ce l’ha: è di “Milly” Lazzarini. Quest’ultima viene condannata a 30 anni per il delitto Vianello e a 20 per quello Taffi Pamio. Le sue parole contraddittorie non vengono prese in considerazione dai giudici nelle motivazioni, ma i 3 picogrammi tengono Busetto in galera.

Ora i suoi legali giocano la carta Cassazione.

«La Corte Trentina è infatti incorsa in un plateale equivoco nella lettura dell’istanza di revisione e degli atti», sostengono li avvocati Doglioni e Busetto, «La motivazione della sentenza, infatti, è totalmente incentrata sul fatto che Susanna Lazzarini avrebbe dapprima chiamato in correità Monica Busetto per poi tentare di scagionarla “per paura della stessa”, quando, invece, i fatti sono andati in modo esattamente opposto».

Lo stesso delitto, due ricostruzioni in contraddizione, sostiene la difesa.

Nel corpo dell’istanza di revisione - sostengono i legali - «venivano illustrati i motivi per cui la prima versione dei fatti resa da Lazzarini, quella in cui si assumeva ogni responsabilità (anche) dell’omicidio Pamio, fosse la più attendibile in quanto resa quando ignorava fino a quel momento di essere indagata per quell’omicidio; non si aspettava di essere sottoposta ad un interrogatorio su quel delitto; non poteva quindi preparare una ricostruzione dei fatti diversa da quella che ricordava; ed era coerente con la confessione resa al figlio durante un colloquio in carcere».

«Nel contempo», proseguono Doglioni e Busetto, «venivano illustrati i motivi di inattendibilità delle versioni rese successivamente e con le quali Lazzarini chiamava in correità Monica Busetto e caratterizzate da momenti di plateale inverosimiglianza attraverso una ricostruzione dei fatti a dir poco grottesca ed ovviamente priva del benché minimo riscontro probatorio.

La Corte d’Appello di Trento ha respinto l’istanza di revisione, ritenendo attendibilità della prima versione, ma purtroppo però la Corte incorre in un errore tanto plateale quanto inspiegabile in quanto inverte il contenuto delle versioni rese da Lazzarini muovendo dal presupposto che la prima versione sia etero-accusatoria e la seconda-auto accusatoria. Cosicché l’intera struttura della motivazione su cui la sentenza si fonda risulta distorta, disarticolata, il significato degli elementi di prova capovolto e, conseguentemente, il risultato finale errato».

«È difficile per noi dare una spiegazione di quanto accaduto», concludono i legali, «la nostra richiesta di revisione si fondava proprio sul confronto tra le versioni dei fatti rese da Susanna Lazzarini, sui momenti di attendibilità della prima auto-accusatoria e su quelli di inattendibilità e inverosimiglianza della seconda etero-accusatoria e, tra l’altro, sulle tecniche di interrogatorio con le quali i pubblici ministeri hanno ottenuto la seconda versione».

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