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L’ultimo libro di Cristina Battocletti: «Trasmettiamo non solo i caratteri fisici ma anche l’eredità emotiva»

«Appena vedo il profilo delle montagne mi commuovo. Quando torno nella mia regione d’origine mi sento come Pasolini quando affermava che “Quando passo il Tagliamento sento odore di terra romanza”, è una sensazione unica».

Cristina Battocletti sarà la protagonista dell’appuntamento di domenica 15 settembre, alle 11 al Kursaal per la rassegna “Un libro…un caffé”.

«Tornare in Friuli Venezia Giulia mi fa sempre un grande effetto, perché lì ci sono i miei affetti più cari: la mia famiglia, i miei amici d’infanzia – afferma la scrittrice –. È sempre importante sapere che la mia regione mi accoglie per un libro».

E il libro che verrà a presentare si intitola “Epigenetica” edito da La Nave di Teseo nel 2023 (192 pagine, 17 euro).

Come è nata l’idea di questo lavoro?

«Il titolo è oggettivamente un titolo da saggio ma lo ho voluto io. Alcuni anni fa, discutendo con Guido Tonelli, che era il responsabile del progetto del Cern sul Bosone di Higgs, uno scrittore oltre che uno scienziato, mi raccontò di questa scienza, l’epigenetica, in cui si diceva che non trasmettiamo soltanto i caratteri fisici ma anche l’eredità emotiva. Io tante volte mi sono chiesta, crescendo in quella terra, se il peso della Prima o della Seconda guerra mondiale o anche della Guerra fredda avessero lasciato delle tracce su chi mi ha preceduta. La risposta me l’ha data questa scienza e quindi ho voluto immaginare innanzitutto una donna e la cosa più riprovevole che può fare in società: abbandonare un figlio quando non ha motivi economici. C’erano quindi due istanze che per me urgevano: quella di parlare di come l’ambiente lasci una traccia chimica sul dna e poi considerare la condizione femminile. Sulla maternità le donne sono sempre bacchettate sia se fanno figli sia se non li fanno, i maschi non vengono mai interrogati a riguardo».

Come ha scelto Grado per ambientarla?

«Perché per me è un posto dell’infanzia in cui andavo d’estate e la cui parte più bella è quella lontana, selvaggia, in cui il mare non è profondo».

Lei ha scritto un libro con Boris Pahor, come è stata quell’esperienza?

«È stato un confronto con le mie radici slovene, che non sono conclamate ma che chiunque sia nato in quella parte di Friuli ha. Il fascismo aveva impedito qualsiasi forma di esplicazione dell’identità slovena e quindi noi, seppur vivendo a pochi minuti dal confine, non parliamo lo sloveno, mentre tutti sanno che in Trentino Alto Adige le persone parlino tutte e due le lingue. Ai tempi per lavoro mi occupavo di seguire gli ultimi esiti della guerra nella ex-Jugoslavia e del processo all’Aja. Seguivo anche la letteratura e quando sono entrata in contatto con lui, è nata lentamente un’amicizia, perché dopo quattro campi di concentramento, lui era assai diffidente. Poi però è stato come uno specchiarsi perché lui vedeva la possibilità di affidare a una giovane donna italiana le sue memorie da anziano sloveno in modo da consentire ai popoli di essere fratelli».

Cosa porta con sé della sua terra natale?

«Le mie origini mi sono servite da terreno e spinta per fare un percorso letterario. È sempre necessario guardare alle proprie radici, capirle, e da lì iniziare un cammino che poi è il nostro personale d’identità. Lodo Guenzi, con cui ho lavorato per un programma e che ha studiato all’accademia Nico Pepe di Udine, mi ha detto che i friulani sono croccanti fuori e morbidissimi dentro, ed è una nostra caratteristica quella della diffidenza che rivela la dolcezza. A me la caratteristica che piace di più è il pudore che vuol dire orgoglio, gentilezza, intelligenza. Ma il Friuli Venezia Giulia ha anche in sé la consapevolezza di essere una terra di confine, quindi soglia, intesa come limite o potenzialità a seconda dei casi».

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