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Stretto di Messina: il ponte tra mondo e fantasia di Gaetano Pesce

Dal progetto-arabesco per unire la Calabria e la Sicilia alle poltrone- ritratto. O quelle fatte imitando gli spaghetti. L’architetto-designer ha lasciato un segno, intelligente e divertente, nella creatività italiana, utilizzando strumenti del riprodurre in serie per realizzare «pezzi unici». Dove l’arte della memoria incontra la contemporaneità.

Se ne è andato nell’aprile scorso il più libero, il più fantasioso, il più originale architetto italiano dopo Carlo Scarpa. Incontrai la prima volta Gaetano Pesce a Los Angeles, presentando una mostra, organizzata da Francesca Valente. Saranno stati 15 anni fa. Lui arrivò da New York, agile, rapido, luminoso. Diventammo subito amici. Lo ritrovai poco dopo a Milano, chiamato alla Triennale da Davide Rampello. Io ero l’assessore alla cultura, e inaugurai la ricca e fantasiosa mostra accompagnata da un catalogo mirabilmente originale, in poliuretano espanso. Lo portai al Pac, il Padiglione d’arte contemporanea, a vedere Luigi Serafini, a lui spiritualmente affine, architetto artista. Mi colpì subito di Pesce, maestro di design, il capovolgimento del principio stesso della sua disciplina che prevede la produzione industriale, sui grandi numeri, degli oggetti disegnati e progettati: è la legge del design. Lui invece, partendo da una idea, produceva pezzi unici. Mille vasi diversi. Grandi numeri di pezzi unici. Una rivoluzione, soprattutto estetica.

Poi ho iniziato a curare sue mostre, a Firenze, a Milano, a Padova, alla Biennale di Venezia, all’Expo di Milano 2015, al Palazzo Ducale di Mantova. Sempre con mio divertimento per la sua inesauribile fantasia. Intelligenza pura. Era rassicurante sentirlo sui casi della cultura e della politica italiana, con osservazioni originali come quelle sul ponte di Messina come occasione di creatività e di invenzione fuori dalle prevedibili linee diritte di congiunzione fra i due Capi, un percorso di fantasie e di miraggi, con soste, giardini, un percorso come un sogno, secondo l’idea dell’arabesco suggerita da Ennio Flaiano, più utile di qualunque linea retta. Un ponte della memoria, del mito della storia, più che la memoria di un ponte, come altrove ve ne sono. Un ponte come meraviglia del mondo. Continuamente stupefacente, sorprendente, imprevedibile, un ponte fra civiltà, tra Nord e Sud, un ponte che unisce mondi lontani.

Pesce non lo progettava soltanto, lo vedeva e ce lo faceva vedere. I suoi progetti erano immediatamente esecutivi. Dentro c’era tutta la tradizione italiana, da Paolo Uccello al seicentesco Alessandro Magnasco, da Antonello da Messina al novecento di Alberto Savinio, tutti in Pesce, nel suo pensiero classico e paradossale insieme. Qual è il rapporto tra l’opera di Gaetano Pesce e la tradizione artistica italiana, che egli conosce e reinterpreta con una intelligenza e una fantasia uniche? L’apparenza della sua dissonanza dai linguaggi della tradizione è soltanto nell’uso dei materiali. In realtà Pesce ha sempre considerato il suo lavoro libero dalle barriere tra i linguaggi proprie delle arti, nelle distinte discipline (architettura, scultura, pittura, disegno, design). La sua ricerca è una sorta di agglomerato in cui le categorie espressive seguono e sono scelte secondo il contenuto o l’argomento da trattare. Fin dalle prime mostre, Pesce si è espresso, con deliberata incoerenza, usando diversi media.

Ai linguaggi tradizionali non poteva non affiancare quelli della moda, della musica, del cinema, delle performance. In questo il suo spirito trasferisce nel nostro tempo e nelle nostre coordinate gli esempi più alti della tradizione italiana. Restando a Padova, dove Pesce si è formato, è inevitabile, nel dialogo tra architettura, scultura e pittura, pensare alla personalità di Andrea Mantegna, che con un solo medium, la pittura, esprime anche le altre arti. Mantegna è architetto e scultore e, certo, nella sua visione, non riconosceva barriere tra i linguaggi. È una multidisciplinarità che caratterizza i talenti migliori anche nel nostro tempo. Penso acora a Luigi Serafini, Livio Scarpella, Anselm Kiefer, e, per certi versi, Banksy. Ma la posizione di Pesce resta aristocratica e non disponibile a scendere a linguaggi di diretta comunicazione popolare e demagogica in un’aura di immediatezza e di poesia evocativa come quella che caratterizza il linguaggio elementare e primario di Banksy. In Pesce non c’è critica alla società dei consumi, alla persuasione occulta della pubblicità; anzi ne usa i linguaggi elaborati e sofisticati. La sua fantasia si esprime nelle forme e nei materiali che hanno generato la sedia Nobody’s Perfect, il tavolo uomo rinato, la Pulcinella Lamp, il modello originale in legno della poltrona UP5_6, e altre opere tridimensionali concepite dagli anni Sessanta a oggi. Si tratta di «un’esplosione di colori e creatività» che produce oggetti apparentemente inutili, e invece tutti funzionali, in una chiave che nega prima di tutto il carattere ripetitivo del design. Pesce produce, non riproduce, tanto più nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’arte. È il momento migliore per contrastare questa regola.

Il problema che affronta Gaetano Pesce è l’infinita varietà delle forme: questo ci mostra la natura nella forza dei suoi fondamentali elementi. L’arte, faticosamente, cerca di emulare la natura. Perché al confronto la sfida sia vinta, occorre elaborare forme nuove attraverso materiali nuovi ed essi devono essere duttili e pronte a ogni estensione e distorsione. Per questo, fuori dalla natura, Pesce plasma materiali plastici schiumati, una sperimentazione continua di innumerevole varietà di oggetti realizzati con resine e altri prodotti chimici. Attraverso le sue creazioni artistiche, architettoniche e di design. La sua opera, nelle mostre e nelle città, dove è intervenuto, è il lungo racconto di un’esperienza in contrasto con i principi dominanti dell’architettura e del design del secondo Novecento entro cui si muove un’anima indisponibile a ogni disciplina e regola formale per non limitarsi la fantasia e la meraviglia, espressioni naturali della creatività. Perché il Novecento è il secolo del design, la prima espressione di un’arte democratica. Pesce, con un urlo profondo di ribellione, reclama che anche i pezzi multipli siano unici: è meglio farne mille unici.

Il suo è un nuovo teatro del mondo o della memoria. Il modello concettuale, mnemonico-visivo, dell’opera di Pesce, nonostante l’apparente attualità e contemporaneità, fa riferimento a un patrimonio culturale che oggi è praticamente estinto, ma che fino a pochi secoli fa toccava buona parte degli aspetti della vita quotidiana; mi riferisco alla tradizione millenaria dell’arte della memoria. Molte delle metafore sulla memoria che siamo abituati a usare oggi, anche con una certa leggerezza, affondano, infatti, le radici in epoche in cui la capacità mnemonica era di primaria importanza, vista anche la scarsità di supporti tecnologici. In una ristrettissima cerchia rinascimentale, essenzialmente di matrice neoplatonica ed ermetico-cabalistica, l’arte della memoria assurse inoltre ad onori ben maggiori di quelli che le si riconoscono come mero sapere empirico e utile solo a memorizzare conoscenze inerenti ai più diversi ambiti. Uno dei più celebri esempi di questo utilizzo, quasi iniziatico, della memoria, è l’opera del retore e filosofo Giulio Camillo, detto Delminio (1480-1544), che avvicinò la memoria a una diffusa esperienza visiva, ovviamente non all’esperienza cinematografica ma, mutatis mutandis, a quella teatrale; suo progetto era quello di erigere un autentico teatro della memoria.

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