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Nero notte è il colore delle note

L’ultimo romanzo di Alessandro Mezzena Lona è nato da una sfida: costruire un racconto ispirato a una trentina di tavole realizzate da Romeo Toffanetti, il disegnatore di Nathan Never, personaggio a fumetti della Sergio Bonelli editore. Bisognava narrare di misteriose silhouette incorniciate da finestre illuminate, di luci lunari o elettriche puntate su reti o inferriate, di immagini in notturna di scorci cittadini carichi di quell’atmosfera noir a suo tempo magistralmente creata da Cornell Woolrich.

È dunque plausibile che “Nero è il colore delle note” (Ronzani, pagine 298, euro 25) renda omaggio allo scrittore americano che ha ispirato registi come Alfred Hitchcock per “La finestra sul cortile” e François Truffaut per “La sposa in nero”. Il protagonista infatti porta il suo stesso nome e come lui è stato abbandonato dalla moglie ed è dominato dalla presenza della madre Claire; è pure uno scrittore di genere hard boiled, che ora però non sa più come portare a termine il suo nuovo romanzo, che vorrebbe diverso, la storia di un “ladro di biografie”. Il “doppio”, quando riesce a staccarsi dalla casa materna e a vivere in un palazzo da cui può sbirciare le finestre degli appartamenti vicini, è subito rapito da una presenza inquietante, una violoncellista che sembra la reincarnazione della famosa Jacqueline du Pré, morta di sclerosi multipla una trentina d’anni prima. Inizia così la sua ricerca per scoprire l’arcano: mentre scorre la complessa trama del romanzo vero e di quello mancato, il protagonista svela tuttavia alcune somiglianze anche con lo scrittore reale, Alessandro Mezzena Lona. Che in passato ha mostrato grande abilità nel costruire biografie di autori famosi in romanzi in cui verità e finzione erano davvero indistinguibili, e che continua ora ad ingarbugliare e sbrogliare intrecci, attendibili o meno che siano.

Con una scrittura brillante, costellata di citazioni e di rimandi culturali, infila nel testo anche i nomi di alcuni intellettuali triestini, incastrati però in ruoli di assoluta fantasia; il quotidiano cui fa riferimento è poi «The Liar», trasparente traduzione dell’appellativo a volte usato per il nostro «Piccolo», delle cui pagine culturali è stato a lungo responsabile. Oltretutto, quella città inospitale, dove soffia un vento impetuoso e il mare è ridotto ad immondezzaio, dotata di un Vecchio Porto dove accadono antichi ed avveniristici misfatti, ha più di qualche altro riscontro con Trieste, che però, come la creatura di Frankenstein, ne esce assemblata con pezzi di altre città, Manhattan e Città del Messico, dove era vissuto il vero Woolrich. E mentre si susseguono impensabili colpi di scena, entra in azione il personaggio da cui tutto sembra dipendere, il misterioso e sfuggente Dippold, il cui nome rimanda a quello dell’ottico che Edgar Lee Masters ha immortalato nel suo Spoon River, «riflesso vivido dell’oscurità in cui è condannato a inabissarsi l’uomo quando diventa prigioniero dell’ossessione della Morte».

Mezzena Lona si interroga dunque sulle manipolazioni tecnologiche sempre più invasive sperimentate sul corpo e sul cervello umano per prolungare la vita oltre il suo termine naturale, obiettivo che richiede la messa a punto di un progetto azzardato: trasferire l’essenza stessa di un essere umano nella memoria di un computer, per poi riversarlo in un altro corpo che riceva tutti quei ricordi, emozioni, sogni, gesti, profumi..

Ma qui la differenza rispetto a un qualsiasi romanzo distopico sta nell’aver creato una vicenda certamente sospesa tra realtà e finzione, ma in cui il patrimonio mnestico del narratore è alimentato anche dal possente serbatoio delle sue conoscenze, letterarie, musicali, figurative, cinematografiche e anche scientifiche, saccheggiate dalle più disparate biografie, manipolate e da lui del tutto assimilate: proprio come sono state indotte a fare le creature artificiali nelle quali la famigerata Industrial Brain Utopia, che opera nel Vecchio Porto, ha trasferito l’intera esperienza esistenziale di altri esseri viventi.

Ma è davvero possibile creare una comunicazione perfetta tra vita reale e intelligenza artificiale? Amalgamare due entità così diverse «in un unico essere fatto di carne, sangue, lacrime e fluidi, plastica, acciaio, circuiti stampati»? Antitesi del burattinaio Dippold allora sembra essere proprio Woolrich, uomo solitario e nevrotico che spia le vite degli altri utilizzando la macchina fotografica e che percorre i suoi giorni «lasciandosi guidare da una luce flebile». Ma forse la sua forza sta proprio nel suo saper fantasticare, nel saper «scriverle le storie, non viverle», in moda far capire la differenza tra mondo reale e il suo duplicato fasullo.

Così, al di là di un finale imprevedibile, il romanzo è riuscito intanto ad illuminare per scorci la realtà contemporanea, in cui gli insegnamenti della scienza convivono con i segreti di pratiche ascetiche.

Con la leggerezza che gli è propria, mentre discorre sulle pratiche yoga, e parimenti sugli sviluppi dell’AI, lo scrittore mostra quanto di oscuro permanga nel nostro sapere: la violoncellista poteva ammaliare il suo pubblico proprio perché nella musica non c’è solo una forza arcana, indecifrabile, ma una sintonia potente con l’armonia dell’universo, la «stessa che Johannes Sebastian Bach cercava di ricreare nelle sue partiture».

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