Per Erik Benedetto lo sport è elisir di lunga vita per i pazienti
AZEGLIO. Lo sport è l'elisir di lunga vita. È questo il motto di Erik Benedetto, 47 anni, fisioterapista e personal trainer di Azeglio, profondo amante dello sport che, da pura passione in età giovanile (a 5 anni ha indossato i suoi primi sci di fondo), con tanta abnegazione, sacrifici e voglia di migliorarsi qualitativamente giorno dopo giorno, ne ha fatto una professione, fino ad essere autonomo e ad aprirsi, oltre ad un sito web, uno studio nella sua Azeglio.
Un lavoro entusiasmante, ma difficile allo stesso tempo, soprattutto perché l'obiettivo è quello di essere da supporto e aiutare le persone alle prese con traumi e non solo, che Benedetto affronta ogni giorno con grande professionalità e competenza, visto anche il delicato ruolo che comporta questa professione, in cui è fondamentale curare nei minimi particolari ogni singolo aspetto, perché anche un errore di lieve entità può portare a problematiche indesiderate.
Come è nata l’idea di intraprendere questo cammino lavorativo?
«Fin da piccolo, quando frequentavo le elementari, ho sempre detto che da grande avrei voluto fare l'insegnante di ginnastica e che avrei voluto frequentare l'Isef, che ora si chiama Scienze motorie. Ho fatto tanto sport: all'età di 5 anni ho messo per la prima volta gli sci di fondo ai piedi, ma in seguito ho praticato anche canoa, calcio e tennis, sempre a livello agonistico. La mia vita è strettamente collegata allo sport. Ho fatto il militare al centro sportivo di Courmayeur, come atleta di sci di fondo, e successivamente ho lavorato in un negozio dedicato allo sport e ho cominciato gli studi di Scienze motorie».
Quand'è nata la passione per la fisioterapia?
«L'ultimo anno di Scienze motorie, durante una lezione in ambito riabilitativo, è scattata la cosiddetta scintilla e così ho fatto il test d'ingresso, passandolo e frequentando per tre anni il corso di fisioterapia. Nel periodo universitario sono diventato maestro di sci di fondo, allenando lo Sci club Brusson dal 1998 al 2001. Sono poi passato a lavorare con la Nazionale italiana di sci di fondo dal 2004 al 2012, realizzando così il mio sogno da bambino. Negli anni successivi sono sempre stato a contatto con la Nazionale, poi nel 2018 ero esausto, si viaggiava tantissimo, avevo terminato il quadriennio olimpico in ambito maschile di Coppa del mondo ed oltre allo sci di fondo ho poi iniziato a praticare anche podismo, con maratone e mezze maratone».
Chi sono gli atleti di maggior spicco che ha allenato?
«In particolare due nello sci di fondo, il primo è Federico Pellegrino, mentre il secondo è Francesco De Fabiani. Ho svolto sia il lavoro di fisioterapista che di preparatore atletico, professione che ho affinato sempre di più nel corso degli anni».
Ha qualche aneddoto da raccontarci?
«Uno in particolare, che porterò sempre con me: siamo ai mondiali in Finlandia nel 2017 e il valdostano Pellegrino ha appena ottenuto la medaglia d'oro. Preso dall'enfasi e dall'exploit di questo atleta, esultando ho provocato una sublussazione alla spalla di un componente dello staff della Nazionale. Da quel momento ho imparato a essere più contenuto nelle esultanze».
Con la tecnologia come sta cambiando la sua professione?
«In ambito fisioterapico la tecnologia è un utile supporto dal punto di vista strumentale e valutativo dell'allenamento. Ci saranno grossi miglioramenti, ma e l'intelligenza artificiale non potrà mai sostituire il lavoro di fisioterapia manuale, perché ogni paziente è diverso da un altro e l'approccio è sempre differente».
In quale ambito ha trovato più difficoltà?
«In verità non soltanto in uno, ma in due: il primo è entrare in connessione con il paziente che ha un problema lombare, mentre il secondo è legato alla lombosciatalgia, problematiche che più mi mettono in difficoltà, perché c'è chi migliora subito e chi invece ci mette più tempo. Questi due lavori mi assorbono molte energie, sia mentali, che fisiche».
Quali sono le esperienze più belle che ha vissuto? «Sicuramente quelle in coppa del mondo, con atleti di alto livello. È l’esperienza chemi ha formato di più, perché bisogna pensare sempre in maniera diversa dalla normalità: bisogna sempre portare l'atleta al 100%, ogni problematica va risolta e non sempre si ha molto tempo perché le gare incombono».