Immaginare la pace: sfide globali e nuovi paradigmi per la coesistenza
di Antonio Salvati
È giunto il momento di immaginare e di costruire un mondo in cui la pace torni ad essere possibile. Questo è stato il fil rouge dell’incontro internazionale “Immaginare la pace”, svoltosi dal 22 al 24 settembre, organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio a Parigi. È l’annuale incontro dello “spirito di Assisi”, dal nome della città dove Giovanni Paolo II nel 1986 riunì i leader delle diverse religioni per parlare di pace in un momento in cui il Pianeta era diviso nei due grandi blocchi della Guerra fredda e da molti conflitti regionali. Tanti i relatori presenti nella capitale francese per partecipare ai 21 forum – tutti particolarmente affollati, soprattutto da giovani – svoltisi nel cuore della città sulle principali problematiche del nostro tempo (tra le quali la pace, il disarmo, la crisi ambientale, i migranti, la democrazia e la solidarietà, etc.).
Impossibile render conto, in poche battute, le numerose indicazioni, i tanti auspici formulati per dare una forte scossa alla paralisi del nostro tempo e, innanzitutto, per non rassegnarsi alla normalizzazione della guerra. In un tempo in cui parlare di pace può sembrare da sognatori, occorre – ha affermato Andre Riccardi – ritrovare il senso del destino comune. Guardando le varie crisi aperte, «questo auspicio può sembrare retorico, un pensiero da anime belle che non si sporcano con la storia». Per questo, «dobbiamo riacquistare la capacità di immaginazione di fronte a situazioni bloccate». Nelson Mandela diceva: «la pace non è un sogno: può diventare realtà; ma per custodirla bisogna essere capaci di sognare». Bisogna trascendere i pensieri fossilizzati. In questo senso, le religioni sono chiamate dalla loro stessa tradizione, dal dolore degli uomini, a un grande sforzo. «Se gli uomini non possono far sì che la storia abbia un senso, possono comunque comportarsi in modo che la vita ne abbia uno», affermò il grande intellettuale non credente Albert Camus. È quel cominciare da sé stessi, che nessuno potrà toglierci, sottolinea Riccardi.
La coesistenza di comunità diverse, o di gruppi diversi all’interno di una stessa comunità, è sempre stata difficile fin dalla notte dei tempi. Non è possibile mitizzare un passato nel quale l’umanità avrebbe conosciuto una sorta di armonia generalizzata. Ma oggi – avverte Amin Maalouf, fra i maggiori scrittori francofoni viventi, recentemente eletto alla guida della più prestigiosa istituzione letteraria transalpina, l’Accademia di Francia – non possiamo più permetterci di perpetuare questo tipo di relazioni conflittuali, «perché viviamo in un mondo con potenzialità enormi di distruzione. Abbiamo dunque l’obbligo di organizzarci in un modo nuovo».
Da quasi tre anni, dall’invasione russa dell’Ucraina, la guerra è prepotentemente entrata nelle case europee. Dopo l’immediato sgomento, sono seguiti rassegnazione, distacco, impassibilità. Dobbiamo prenderne atto: siamo entrati in una nuova epoca storica, dominata da regimi di guerra. E ciò ha conseguenze – avverte la filosofa Donatella Di Cesare – non solo sul panorama geopolitico, ma anche sulla nostra percezione degli altri e di noi stessi, sulla nostra umanità. L’attuale narrazione mediatica, il reportage dal fronte, ci ha via via abituato a credere «che sia inevitabile ricorrere alla violenza militare, cioè alla violazione del corpo altrui, per dirimere un conflitto. Anche nel XXI secolo. Ma c’è di più: la retorica disumanizzante della guerra ci ha spinto a considerare normale la morte delle vite altrui – decine, centinaia, migliaia». Non a caso, alcuni mesi fa il leader militare del movimento islamista palestinese Hamas nella Striscia di Gaza, Yahya Sinwar, dichiarò che quando si combatte per la liberazione di una nazione la morte dei civili è un “sacrificio necessario”. Il regime di guerra in cui siamo entrati non ha solo incentivato tutto ciò, ma ha fornito – spiega la Di Cesare – soprattutto la cornice interpretativa. Sta qui la svolta: «nella legittimazione politica. Si giustifica ormai la separazione tra vite degne di lutto e vite non degne di lutto. Allo stesso modo in cui si giustifica la frontiera tra vite da proteggere e vite da abbandonare e bandire. Si parla di muri, ma il vero grande muro sta in questo iato, in questa separazione abissale, nel baratro che ormai è stato scavato tra le vite che si conformano alla norma occidentale dell’umano e le vite degli altri più altri, estranei al punto da essere stigmatizzate come umanità superflua ovvero non-umanità».
Una deriva senza precedenti, che minaccia di scardinare non solo i nostri valori religiosi, etici, politici, ma la nostra stessa coesistenza. Se si avallasse «l’idea di una vita non degna di lutto si spezzerebbe il legame umano. Passa di qui la divisione tra umanità primaria e secondaria, degna e indegna».
A Parigi si è riflettuto in particolar modo sulla salute della democrazia. Vivere insieme è un obiettivo apparentemente semplice, quanto meno ovvio. Che, tuttavia, sembra diventato impossibile. Quando si passa dalla democrazia astratta, che non ha difficoltà ad essere plurale, a quella concreta, all’obbligo morale e politico, per noi europei, di vivere e incarnare una democrazia inclusiva, ogni minoranza – avverte Mario Marazziti – può essere descritta come un vicino sgradito, un ospite inatteso.
E ogni minoranza rivendica la propria identità e i propri diritti, «con la tentazione di essere universale: la mia minoranza è il tutto, va riconosciuta come il tutto, io sono più minoranza di te, il mio dolore è più grande del tuo, nessuno può capirlo: società ricche, opulente e un numero sempre più grande di esclusi e di vittime. Ci sono tanti ostacoli al vivere insieme. Uno tra i tanti, recente, è la cultura della vittimizzazione, dall’interno di minoranze che hanno goduto e godono di meno diritti, e un linguaggio “politically correct” a volte rischia di esserne prigioniero, simmetrico alla percezione di tanti di non poter essere capiti, e al rifiuto di volerlo essere perché in ogni tentativo di comprensione e vicinanza può celarsi il paternalismo». In tutto l’Occidente e non solo, esiste una religione molto diffusa: l’individualismo. È presente, è pervasivo nella nostra società, oltre i confini che individuano lo spazio religioso e quello civile, credenti e non credenti o credenti a modo proprio. È una religione – spiega Marazziti – di grande successo, «indebolisce le comunità, i corpi intermedi, la politica, provoca una frammentazione della società, impedisce di ricercare il bene comune. Impedisce l’identificazione con l’altro. Impedisce di vedere nell’altro la nostra umanità. Dis-umanizza l’altro e noi stessi. In ogni guerra si dis-umanizza l’altro e si perde la propria, di umanità, anche a partire dal proprio essere vittime».
È quella che il filosofo di origine coreana Byung-Chul Han chiama l’espulsione dell’altro. In un mondo omologato si cerca di espellere l’altro dalla nostra vita perché rappresenta una domanda e questo provoca in qualche modo un dolore da superare. Spingendo a cercare solo il principio del piacere, i like, gli omologhi. Questa incapacità di vivere insieme mette a rischio l’umanesimo europeo, l’universalismo dei diritti, che non riguarda gli oltre 200 milioni di migranti o i 120 milioni di profughi forzati, raddoppiati nell’ultimo decennio, e trattati come se fossero una emergenza. Occorre – è l’invito di Marazziti – cambiare lo sguardo, cercare il punto di partenza per reinventare il gusto e la pratica del vivere insieme. Attorno a noi e a livello globale, planetario. Con particolare attenzione all’utilizzo dei social media – come ha osservato acutamente Andrea Malaguti, direttore de La Stampa – e a quello che viene definito il capitalismo della sorveglianza. I social sono in mano a sette californiani che controllano i dati di miliardi di persone. Pensiamo di vivere nella massima libertà, mentre in realtà abbiamo il massimo del controllo.
Ci si è chiesto, inoltre, se la transizione ecologica ha perso la sua importanza? Evidentemente no, hanno risposto gli esperti convenuti a Parigi. I fenomeni fisici che sono alla base del riscaldamento globale, dell’interruzione del ciclo dell’acqua e della continua distruzione dei nostri ecosistemi naturali sono solo peggiorati. Sappiamo che raggiungeremo – spiega l’economista Gaël Giraud, assai ascoltato da Papa Francesco – il tetto di +1,5°C di riscaldamento del pianeta (fissato 9 anni fa a Parigi) prima della fine di questo decennio. E che sarà praticamente impossibile evitare di raggiungere i +2C prima della metà del secolo.
Sappiamo – aggiunge – che il divario fra domanda e disponibilità globale di acqua potabile è destinato a raggiungere il +40% entro il 2030 se continueremo a fare poco per garantire l’accesso all’acqua a tutta l’umanità. Sappiamo, inoltre, che la deforestazione in Amazzonia è oggi al 18% (rispetto all’era forestale preindustriale) e che se superiamo il 25%, rischiamo di trasformare il principale polmone del pianeta in una savana. E in modo irreversibile. Che cosa è successo? Naturalmente c’è stata la guerra in Ucraina, che ha fatto precipitare la comunità internazionale nell’immediatezza del conflitto. Ora c’è il conflitto in Medio Oriente, che domina i titoli dei giornali. Ma i due conflitti da soli non spiegano perché l’Occidente sembra fare un passo indietro sul fronte ecologico. Giraud parla di n fattore decisivo passato in gran parte inosservato, ma che sta giocando un ruolo decisivo: «alla fine del 2022, la maggior parte delle compagnie di riassicurazione del mondo occidentale si è ritirata dal rischio di eventi meteorologici estremi – inondazioni, siccità, uragani… – proprio gli eventi che sono destinati ad aumentare di numero (o di gravità) a causa del riscaldamento globale. Ciò significa che, da quasi due anni, la maggior parte dei riassicuratori rifiuta di riassicurare gli assicuratori contro i danni causati da questi eventi. Eppure l’impatto di questi danni sulla professione assicurativa è enorme. Nel 2021 e poi nel 2022, il risultato netto registrato dagli assicuratori residenziali nazionali in Florida è stato una perdita annuale di circa 1.000 miliardi di dollari (poco meno del PIL della Spagna)». Le perdite annuali indotte da eventi meteorologici estremi negli Stati Uniti hanno superato i 50 miliardi di dollari all’anno dal 2016 e sfioreranno i 200 miliardi dal 2021. Se non si interviene, è probabile che tutti i riassicuratori, e poi gli stessi assicuratori, si ritirino dall’assicurare i rischi associati agli eventi metereologici estremi.
L’utilizzo delle tecniche che chiamiamo Intelligenza Artificiale – è stato rilevato in un forum ad essa dedicata – può aiutare a risolvere problemi complessi: ridurre l’inquinamento, aiutare la ricerca scientifica analizzando milioni di dati, tradurre le lingue per farci comunicare. Può però anche creare sfruttamento del lavoro umano, manipolare le elezioni politiche, inventare cospirazioni e complotti, dalla terra piatta ai rettili che dominano il mondo. Evidentemente non si tratta di essere pro o contro o di dividerci tra tecno-esatto entusiasti contro tecno-critici, ma chiederci come gestire in modo efficace e sostenibile l’ambivalenza che non abbiamo risolto con Internet: strumento decisamente straordinario di connessione e apertura che ci fa stare insieme ma soli, realizza reti che comunicano ma allo stesso tempo alimentano anche sovranismi e razzismi. L’utilizzo delle tecniche che chiamiamo Intelligenza Artificiale – ha spiegato Milena Santerini – sfrutta i nostri meccanismi psicologici e provoca profondi cambiamenti culturali collettivi. Gli algoritmi controllati da imprese private influenzano le relazioni sociali nell’esperienza quotidiana e il nostro “inconscio digitale”: «possono diffondere falsità, possono distorcere la realtà attraverso le lenti del conflitto tra tribù spingendoci all’estremismo e alla polarizzazione: noi contro loro, il “nemico”». I fenomeni di odio online possono essere alimentati dall’Intelligenza Artificiale. Recentemente alcuni sono riusciti ad aggirare i filtri di sicurezza di ChatGPT e Google bard e far dare risposte manipolate sull’Ucraina e l’Olocausto nel dialogo con la chat. Come afferma Jurgen Habermas, quando il dibattito nella sfera pubblica non è filtrato in modo qualitativo, ma solo per scopi commerciali, la democrazia è compromessa dall’algocrazia. La “Rome Call for AI Ethics”, diffusa nel febbraio 2020 dalla Pontificia Accademia per la Vita su iniziativa di Mons. Vincenzo Paglia, ha lanciato – ha ricordato Santerini un appello per sviluppare l’Intelligenza Artificiale in modo che rispetti la dignità umana e promuova il bene comune. Tra i principi chiave del documento ci sono trasparenza, inclusività, responsabilità, imparzialità, affidabilità e sicurezza, sulla base dell’algoretica. L’iniziativa ha visto la partecipazione dei leader del settore e rappresentanti di varie religioni, dimostrando un approccio ecumenico e interreligioso alle questioni etiche.
Lo spessore dei diversi interventi del Meeting di Parigi ha dimostrato che c’è bisogno di incontrarsi. Come direbbe Papa Francesco, «di tessere legami fraterni e di lasciarsi guidare dall’ispirazione divina che abita ogni fede, per immaginare assieme la pace tra tutti i popoli. Abbiamo bisogno di spazi per dialogare e agire insieme per il bene comune e la promozione dei più poveri. Sì, in un mondo che rischia di frantumarsi nei conflitti e nelle guerre, il lavoro dei credenti è prezioso per mostrare visioni di pace e favorire ovunque nel mondo la fraternità e la pace tra i popoli». Oggi, ancor più che in passato, il grande compito della pace è affidato a ciascuno, credenti e non. Ci sono – sostiene il Papa – chieste saggezza, audacia, generosità e determinazione. «Dio ha consegnato anche nelle nostre mani il suo sogno sul mondo: ossia la fraternità tra tutti i popoli. (…) Nelle mie Encicliche Laudato sì e Fratelli tutti ho immaginato il futuro per questo nostro mondo: un’unica casa (il nostro pianeta) e un’unica famiglia (quella di tutti i popoli). A noi tutti è affidata da Dio la responsabilità di esortare e spingere i popoli alla fraternità e alla pace».
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