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Smartworking davanti a una riduzione generale: ma è davvero un addio?

di Marco Vitiello*

A ben leggere la lettera con cui il Ceo di Amazon, Andy Jassy, annuncia ai dipendenti il ritorno al lavoro in presenza (come prima del Covid), le motivazioni non sono così bislacche, anche da un punto di vista psicologico. Jassy punta sulla cultura organizzativa (molto orientata al cliente) e sullo spirito di squadra, e non è il solo. Da Disney a Meta, passando per Ibm e Apple, diverse grandi aziende stanno seguendo la tendenza a ridurre il lavoro da remoto per motivi analoghi: la percezione che la collaborazione e la produttività siano migliori in ufficio, oltre che la necessità di massimizzare l’uso degli spazi aziendali, e in alcuni casi, anche per rafforzare la cultura aziendale che si ritiene indebolita dal lavoro a distanza.

Da questo punto di vista anche gli studi confortano la scelta di Amazon e le altre. Recenti ricerche indicano, infatti, che il lavoro remoto prolungato può ridurre l’innovazione e la creatività, principalmente a causa della diminuzione del confronto diretto, del minor senso di comunità e della difficoltà a costruire relazioni collaborative efficaci. Questi ultimi sono peraltro tutti elementi che stratificano la cultura di un’organizzazione, ne creano l’identità e il modo di porsi e ritrovarsi nella dinamica lavorativa e sociale.

In effetti, dalla pandemia in poi le identità lavorative si sono un po’ frammentate e ci manca quella sana appartenenza che il contesto lavorativo ci consentiva di soddisfare. Ma non si può dare tutta la colpa allo Smart Working o, che dir si voglia, Remote Working (al di là delle differenze tecniche, ormai si parla genericamente di Working From Home). È il lavoro che è cambiato, siamo cambiati noi, ci stiamo evolvendo e sono proprio le tecnologie a spingere e sostenere il cambiamento, ormai in maniera troppo repentina, che facciamo fatica a capire come evolvere nel migliore dei modi.

Lo sa bene proprio Amazon, quando all’improvviso ha dovuto far fronte a una popolazione “quasi” mondiale che ordinava prodotti da casa. Anche all’epoca però, nell’incertezza del cambiamento, si è fatto ricorso a una politica del “controllo” e sono noti i problemi che l’azienda ha dovuto affrontare per mantenere un equilibrio sostenibile. Allora forse è proprio il controllo la principale fonte di resistenza al cambiamento del lavoro che alimenta queste nuove scelte sullo Smart Working? Si tratta forse di questa spinta irrazionale, dettata dall’incertezza, che orienta le organizzazioni a lasciare sul campo tutti i vantaggi che un lavoro “ibrido” comporta?

Sappiamo ormai benissimo che il remote working permette maggiore autonomia e flessibilità, riducendo lo stress legato al pendolarismo e migliorando la gestione del work-life balance. Ci sono poi studi che dimostrano come le succitate “autonomia e flessibilità” aumentino la motivazione intrinseca e l’engagement, specialmente nei contesti dove c’è fiducia e trasparenza nelle relazioni tra manager e collaboratori.
Ecco, forse è qui che si gioca la partita, forse le organizzazioni non hanno ancora sfruttato l’opportunità per rivedere i paradigmi organizzativi, promuovendo un nuovo equilibrio tra innovazione e benessere, una nuova cultura del lavoro.

Per fare ciò bisogna negoziare significati, non imporli; di qui il consiglio alle aziende di avviare un dialogo con i lavoratori, che potrebbero rimanere ancora più confusi e insicuri di fronte a processi di “ritorno al passato”, mentre potrebbero far parte di un approccio evolutivo per creare modelli di lavoro che combinino presenza e remoto, basati sulle esigenze specifiche dei team, dei ruoli e dei territori. Inoltre sarebbe auspicabile implementare programmi di supporto psicologico per affrontare i rischi di burnout e isolamento, così come formare i manager alla gestione del lavoro a distanza e ibrido, affinché diventino promotori di fiducia e di benessere organizzativo, piuttosto che controllori.

*psicologo del lavoro

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