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Cinema al cento per 100, ecco le nostre recensioni dei film in sala dal 3 ottobre

JOCKER: FOLIE A DEUX | BESTIARI, ERBARI, LAPIDARI | VERMIGLIO | IL TEMPO CHE CI VUOLE

JOKER: FOLIE À DEUX

Regia: Todd Phillips

Cast: Joaquin Phoenix, Lady Gaga, Brendan Gleeson, Catherine Keener

Durata: 138’

Non è un sequel. È un altro film. “Joker: folie à deux” è spiazzante come lo è stato, in modo diverso, il primo capitolo. E Todd Phillips non è un regista banale.

Avrebbe potuto cavalcare il successo del 2019 (Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia) così vicino (eppure così lontano) dalla cultura pop dei cine-comic.

Invece, sceglie di ridare le carte al tavolo di gioco e pesca un Joker completamente inatteso, diverso, recintato dentro le mura della prigione criminale in cui è rinchiuso o nell’aula di tribunale in cui si celebra il processo che lo vede alla sbarra per 5 (anzi 6) omicidi.

È stato lui, simbolo anarchico vestito da clown, o il suo involucro in carne e (soprattutto) ossa Arthur Fleck? E la donna che incontra in carcere (Harleen "Lee" Quinzel/Harley Quinn: doppia come l’attrice che la interpreta: Stefani Joanne Angelina Germanotta “alias” Lady Gaga) è innamorata dell’uomo o della sua ombra malvagia?

Tanto che il film si apre proprio come un cartoon stile Looney Tunes anni 50’ (“Io e la mia ombra” firmato da Sylvain Chomet) che anticipa ciò che vedremo sullo schermo. Ovvero i chiaro-scuri della follia, lo sdoppiamento, “l’alias” portato alla sua più straniante e straziante dimensione.

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Ecco, allora, che quel “due” nel titolo” assume tanti significati.

Sono Joker e Harley Quinn, insieme, in un sogno di ribellione, sopra e oltre la società che li ha partoriti, che si muovono e cantano dentro un musical alla Vincent Minnelli? O sono Arthur e Lee “smascherati”, finalmente liberi e avvinti da un amore puro? Di chi sono queste visioni? Di lui o di lei?

Oppure la pazzia è quella di una società e del suo sistema che vede, non corrisposta, in un uomo fragile ciò che non è? O, ancora, la follia a due è solo quella che si agita dentro Arthur/Joker, alimentata dalla solitudine dell’ambientazione carceraria e processuale, pungolata da aguzzini sbeffeggianti e squarciata dalla verità di un’unica testimonianza autentica (quella dell’amico “risparmiato” Gary)?

Phillips fa, letteralmente, esplodere tutto, mescola i generi, moltiplica le visioni, avvince il reale all’immaginario e, nell’epilogo tombale, con un colpo di genio, decreta la fine di tutto. Dei cine-comic come finora li abbiamo conosciuti.

Della stessa convinzione che, sino ad oggi, abbiamo realmente assistito ad uno spin-off sul super-villain della DC Comics. Non poteva scegliere strada più impervia, intellettuale e difficile. L’ha camuffata bene dietro il cerone bianco e il rossetto, tra le note del musical e il glamour di due star come Joaquin Phoenix (come sempre strepitoso) e Lady Gaga. Ma è “solo” un film sulla follia. Ed è bellissimo. ( Marco Contino)

Voto: 8,5

***

BESTIARI, ERBARI, LAPIDARI

Regia: Massimo D’Anolfi - Martina Parenti

Durata: 205’

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L’Orto Botanico di Padova è uno dei protagonisti assoluti del documentario (presentato Fuori Concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia), firmato da Massimo D’Anolfi e Martina Parenti.

“Bestiari, Erbari, Lapidari” è un film potente, un flusso di oltre tre ore diviso in tre atti, ognuno dei quali tratta un singolo soggetto: gli animali, le piante e le pietre.

E ogni capitolo è un omaggio a uno specifico genere cinematografico: “Bestiari” è un found-footage su come e perché il cinema ha ossessivamente rappresentato gli animali; “Erbari”, invece, un documentario poetico d’osservazione dall’interno dell’Orto Botanico; “Lapidari”, infine, è un film industriale sulla trasformazione della pietra in memoria collettiva (con un finale emozionante).

E proprio il secondo atto ambientato a Padova è il nucleo centrale attorno al quale i registi hanno costruito il resto del film.

Nell’osservare le piante, la loro cura da parte dei giardinieri e nell’ascoltare le parole del botanico Stefano Mancuso emerge come l’apparizione dell’uomo sulla Terra sia qualcosa di fugace, se comparato al ciclo delle piante.

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La finitezza dell’uomo ma anche la sua indole di controllo (l’ossessione di addomesticare gli animali) e distruttrice (nel terzo atto con le immagini della guerra e della sua devastazione). Ma l’uomo non c’è soltanto nel male, è uno dei tanti elementi che compongono il paesaggio.

Per esempio, in “Lapidari” forgia i fossili del futuro, ovvero le pietre d’inciampo che ricordano le vittime della deportazione nazista. E sono di un uomo, di un padre che ha perso il figlio durante la Prima guerra mondiale, le parole più struggenti del doc.

Un giovane soldato botanico che, durante il conflitto, ha continuato ad alimentare la propria passione e il proprio erbario fino a quando è caduto, ricongiungendosi a quella natura che tanto amava.

Oggi, quell’erbario di guerra, donato dal papà all’Orto, è una testimonianza emolliente. Il cinema di D’Anolfi-Parenti è, da sempre, sensibile alla memoria e alla sua conservazione, tema che esplode, nell’episodio “Lapidari” con le riprese all’Archivio di Stato, le pagine del casellario politico giudiziale e, soprattutto, con l’epifania delle pietre di inciampo.

Per loro il cinema è archivio, memoria ed è sempre una riflessione sul guardare attraverso diversi linguaggi. Una esperienza a cui abbandonarsi: “mirabilis”. (Marco Contino)

Voto: 8

***

VERMIGLIO

Regia: Maura Delpero

Cast: Tommaso Ragno, Giuseppe De Domenico, Roberta Rovelli, Martina Scrinzi, Orietta Notari

Durata: 119’

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Gran Premio della Giuria a Venezia 2014 e film designato dall’Italia alla cinquina dei film stranieri in corsa per l’Oscar, “Vermiglio” è una delle più belle realtà del cinema italiano di questi ultimi mesi.

Il film di Maura Delpero prende il nome da un villaggio un tempo sperduto nella Val di Sole. Nell’ultimo anno della seconda guerra mondiale una grande famiglia di montagna, i Graziadei, accoglie un soldato rifugiato e, come per un paradosso del destino, perde la pace nel momento in cui il mondo ritrova la propria, dopo la Liberazione.

Un film che, si è detto più volte, evoca una freschezza e una genuinità nel più puro stile di Ermanno Olmi, tra natura leopardiana e valori di umana solidarietà.

Maura Delpero ha detto più volte di aver ascoltato il proprio inconscio, perché «dopo la morte, mio padre è venuto a trovarmi in sogno. Era tornato nella casa della sua infanzia. Aveva sei anni, due gambette da stambecco, e portava questo film sotto il braccio».

Così Delpero ha scritto, diretto e coprodotto questo film assieme a Raicinema, nel paese d’origine del padre, Vermiglio, nella Val di Sole meno contaminata dal turismo, tra l’Adamello e il Tonale, tra Trentino e Lombardia.

Una storia corale di impatto emotivo, fatta di bambini che ragionano più degli adulti (splendidi i commenti notturni, nel lettone comune) e di grandi che si comportano da piccoli. Bambini strappati all’infanzia dalla guerra, in una società deprivata dei padri, e che mantengono ironia e lo sguardo puro del fanciullino pascoliano.

Una vicenda lunga quattro stagioni, con la musica di Antonio Vivaldi che la spiega, in modo diegetico, anche grazie alle parole del maestro e padre padrone della famiglia Graziadei. Attorno a lui, Tommaso Ragno, pochi altri attori e una miriade di non professionisti reclutati tra la gente della valle.

«Ho scritto sul posto, immergendomi nelle osterie e nei bar, a bere grappa e birra con i signori del luogo, che poi mi portavo sul set. Ho scelto ogni comparsa o bambino, anche perché loro non si sarebbero mai presentati a un casting. Poi c’era il dialetto, la vera musica del film assieme ai sussurri dei bimbi».

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“Vermiglio” ha un sapore antico, ma in realtà è moderno nei temi e nello stile, nell’espressività, a cominciare dalla direzione dei bambini, autentico coro greco, mai stucchevole. Non c’è nostalgia, anzi il passato appare come un mondo di desiderio e non di sole necessità. Anche allora c’erano desideri forti, gli stessi di oggi, da una sessualità repressa che trovava sfogo in vario modo, all’ansia di emancipazione culturale delle ragazze, di affrancamento dei maschi dalla dura vita della montagna.

E di desideri negati o celati, anche in chi pare tutto d’un pezzo come il padre-maestro, che ascolta Chopin e Vivaldi, ma nasconde album da voyeur. O dalla voglia riconoscente di famiglia del soldato siciliano che nasconde un’altra vita, dalla maternità negata di Lucia e poi ricondivisa, dalla fuga in montagna al ritorno: non proprio un’elegia alpina, ma un andare circolare tra la natura esteriore e interiore, entrambe leopardianamente matrigne. (Michele Gottardi)

Voto: 7

***

IL TEMPO CHE CI VUOLE

Regia: Francesca Comencini

Cast: Fabrizio Gifuni, Romana Maggiora Vergano

Durata: 110’

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“Il tempo che ci vuole”, presentato fuori concorso a Venezia 81, poche settimane or sono, ricostruisce il rapporto tra la regista Francesca Comenicini e il padre, il celebre Luigi, elevandolo a vicenda universale nel rapporto padre/figlia. Un padre non comune, autorevole nel suo campo e nel ruolo di genitore, con cui Francesca ha dovuto fare i conti a lungo, prima di sciogliersi definitivamente.

Un delicato film di sentimenti e di contrapposizioni generazionali, che segue la figlia che si emancipa da un’infanzia fiabesca, su cui “Le avventure di Pinocchio”, l’indimenticabile serie televisiva di Luigi (1972), ha esercitato un ruolo fondamentale. E poi l’adolescenza, gli anni difficili della droga, la fuga assieme a Parigi, l’ingresso nel cinema.

Il film si basa sulla memoria che di quegli anni la regista ha mantenuto, ricordi condivisi con le sorelle, ma che «sono emersi in un periodo particolare, durante la pandemia, proiettando un cono di luce su alcuni momenti reali e altri forse solo sognati. Il film rispetta questo teatro della memoria: dopo averlo scritto, l’ho fatto leggere a Marco Bellocchio, che mi è dato il via, aiutandomi anche nella produzione».

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Chissà se il film sarebbe piaciuto a Luigi Comencini? Probabilmente no, contrario com’era ai film biografici e soprattutto all’autocelebrazione, lui spesso schivo e riservato, ma questo è stato un bel modo di rendergli omaggio.

La regista ha anche spiegato che, dopo aver passato tutta la vita a cercare di non essere la figlia di Comencini, superati i 60 anni si è detta: perché no? e ha trovato il modo di riconoscere il ruolo fondamentale che Luigi ha svolto come padre e come regista. Il film trasporta infatti sullo schermo il grande amore per il cinema, maturato in Francia da bambino, che gli ha sempre garantito una via di fuga.

Ma nell’elevare la storia a paradigma universale del rapporto padri/figlie, Francesca Comencini non dimentica i fallimenti, perché anche a un regista di fama capita di destreggiarsi tutta la vita con gli insuccessi: «perché bisogna sempre ripartire, ed è un messaggio ai giovani per superare l’ingiunzione a performarsi solo a modelli sociali di successo». Un film di valori e di integrità morale di un artista e di una famiglia speciale o, forse, una come tante. (Michele Gottardi)

Voto: 7

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