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Romeo Çollaku, la poesia di un grande interprete (Traduzione di Arben Dedja)

La poesia di Çollaku è musicale, come quella dei suoi poeti preferiti, che lui ha tradotto, tutti. Le parole vengono scelte sempre con cura, con amore. Spesso poesia in rima (da me accuratamente evitata, per non inciampare), il suono ricco della parlata del sud dell’Albania echeggia, insieme a ricordi di un’infanzia povera e felice, ma fuori dal tempo. Quando la rima non viene utilizzata, i versi si allungano, diventano poesia in prosa e c’è poca differenza tra questa prosa e i racconti, o l’unico romanzo. Accorgendosi della realtà, il poeta la prende in giro con uno humour antico, che nonni e bisnonni hanno usato nella loro essenziale esistenza.

A. D.

***

La leva

Qualche volta la ricordo la leva.
I primi mesi perdevo sempre il cappello.
Se lo toglievo dalla testa, lo dimenticavo.
Mi rasavo ogni sera.
Senza specchio.
Mangiavo fagioli, pilaf, zuppa, tè.
Metà mela nei giorni di festa.
Ah, i mozziconi…
Cucivo i calzoni con i fili delle trasmissioni.
Anche le scarpe.
Anche i pensieri.
Ogni tanto scrivevo poesie in rima a b a b.
Spontaneamente il ritmo veniva come il giambo del passo d’oca.
Spesso dormivo in servizio.
Sognavo la mia famiglia.
O l’altra metà della mela.
Per fortuna il nemico non se ne accorse.

Oggi mi sono rimaste
quindici righe incise
da qualche parte sul muro.

Ma la gente, quando parla,
mi sembra sistemi un po’

l’uniforme.

***

Scintille di solitudini amare

Con la rotula ho ascoltato ancora
il millepiedi della pioggia avvicinarsi.

Lo accarezzasti con tenerezza
e timore da colpevole
come la testolina di un bambino di primo letto.

Non tardarono a luccicare oltre il vetro
scintille di solitudini amare di tante vite
non scritte come avremmo voluto.

Allora sulla parete abbiamo visto due ombre.
Ma non erano le nostre

erano noi.

***

In pensiero

Nebbia e prugni spogli e madrigali di pioggia sui tetti,

dove le vecchie raccontano ai bambini favole e ballate piene di numeri fatidici; avvicinano il cucchiaio alla bocca con suppliche e dolcezze: Presto, ché arriva Dente-di-Ferro! Gli sciacalli corrono nella neve, a circondare il villaggio! Il Drago furioso ha occupato la sorgente.

Tre montagne, sette capi, nove culle…

E i bambini si convincono e mangiano, masticando piano smarriti, con sguardo perso dietro vetri brumosi.

***

Tra cipressi

D’inverno il maestrale canta tra i cipressi, il cuculo in primavera. Tra i cipressi cala raramente il silenzio che le canzoni predicono.

Ma non è inverno né primavera e il lento viandante esita quando l’aroma della salvia gli penetra le narici; da quella strada non si va più, perché molte altre ne indicano le canzoni.

Buio, buio pesto tra i cipressi, finché rinviene l’onnipresente ecclesiasta e due-tre stelle accende.

***

Immagina

Tremenda oscurità
calda soltanto la tua nuca
il collo da scolaresca
solo il tuo alito caldo un pugno
di petali gialli di gelsomino
e qualcosa come un fanale dietro la curva
dove con il martello in mano
un’allucinazione barbara
tende un’imboscata alle statue
diffonde la più fredda luce
di questa vita

Non temere quando vedi
in arrivo gli sgomenti: tu stessa
hai chiamato l’angelo

Immagina
che siamo proprio
presso una profonda felicità
e basta un passo
un suicidio
per toglierci la paura

Non temere non temere
non temere che sia tardi
tardi.

***

Romeo Çollaku (1973), uno dei più grandi traduttori albanesi, è nato a Senicë, un villaggio allora di trenta case (e adesso abbandonato) tra le valli di Saranda, Argirocastro e Delvina. Vive a Tirana. È anche poeta, narratore e romanziere. Ha pubblicato cinque libri di poesie, quattro in prosa e oltre sessanta libri di traduzioni (ma neanche lui si ricorda il numero preciso). In Italia è stato pubblicato, a cura di Eda Derhemi e Domenico Ferrari, il suo romanzo Miele sul coltello (Besa Muci, 2020). Traduce dal francese, dal greco (in senso lato) e dal polacco. Dal francese, imparato a scuola, ha tradotto: Villon, de Nerval, Lautréamont, Mallarmé, Verlaine, Proust, Bernanos, Paul Claudel, Jaccottet…). Dal greco, imparato in Grecia, dove è vissuto per una quindicina d’anni facendo i lavori più disparati, finendo col lavorare anche in una casa editrice dove ha curato un’antologia della nuova poesia albanese (Ανθολογία σύγχρονης αλβανικής ποίησης), ha tradotto: Euripide, Aristofane, Kavafis, Sikelianos, Kazantzakis, Seferis, Ritsos, Elitis… (segue una lista lunghissima). Anche il polacco, l’altra lingua dalla quale traduce, l’ha imparato in Grecia, mentre lavorava in una ditta che pitturava case e il suo capo, immigrato polacco, ex-professore di letteratura, gli recitava il suo poeta preferito: Zbigniew Herbert (che ovviamente ha tradotto, così come Bruno Schulz, Gombrowicz e Miłosz). Alla domanda cosa stesse traducendo ora mi ha risposto: «Aristotele. Perché se ne frega della musicalità e bada solo all’esattezza della parola».

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