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Inchiesta Venezia, Boraso ha ammesso rapporti privilegiati con alcuni imprenditori

Inchiesta Palude verso le battute finali, con un susseguirsi - in questi giorni - di interrogatori, che precede la chiusura delle indagini.

Interrogatori che ora si stanno concentrando sulle accuse di corruzione che la Procura ipotizza non solo a carico dell’ex assessore Renato Boraso e alla rosa di imprenditori che gli ruotava attorno, danari alla mano in cambio di interessamenti per questo o quel progetto. Sono i Pili al centro degli ultimi faccia-a-faccia tra indagati e i pm Baccaglini e Terzo.

Venerdì, a tenere banco è stata l’ipotesi di corruzione che la Procura muove attorno ai tentativi di vendere i 41 ettari da bonificare ai piedi del Ponte della Libertà: quei Pili acquistati all’asta nel 2005 dall’allora imprenditore Luigi Brugnaro per 5 milioni di euro e rimasti in carico a Porta di Venezia.

Sindaco (che respinge ogni accusa) iscritto al registro degli indagati, insieme ai suoi uomini di fiducia nel gruppo, ma anche in Comune: l’attuale direttore generale Morris Ceron e il capo di gabinetto Derek Donadini, che - tramite i loro avvocati - hanno annunciato ai pm che li avevano convocati, che si sarebbero avvalsi della facoltà di non rispondere e sono stati così esentati dal presentarsi il 24 settembre.

Indagati in concorso in corruzione insieme all’ex assessore Renato Boraso e al magnate immobiliarista mondiale Ching Chiat Kwong, al quale il sindaco aveva proposto di investire anche sulla sua area privata, oltre che su altre pubbliche.

Venerdì sono stati interrogati per la seconda volta gli uomini di fiducia in Italia proprio del magnate, che continua a respingere ogni ipotesi non solo di corruzione, ma anche di aver mai pensato di acquistare i Pili.

Dopo le prime dieci ore di interrogatorio di un mese fa, il manager Luis Lotti (con gli avvocati Zancani e De Luca), ha risposto per altre 6 ore alle domande dei pm.

Seguito, per altre tre ore, dall’architetto Fabiano Pasqualetto (difeso dall’avvocata Stefania Pattarello). Tutti negano di aver “tramato” o pagato tangenti per acquistare all’asta pubblica Palazzo Donà e Palazzo Papadopoli (con una stima ribassata di 4 milioni dopo una prima asta andata a vuoto: l’accusa all’ex assessore Boraso è di aver ricevuto tangenti per 73 mila euro “mimetizzate” da pagamenti per consulenze immobiliari mai effettuate) o di aver avuto incontri “segreti” per trasformare i Pili in quel centro alberghiero-residenziale con Palasport che avrebbe moltiplicato con molti zeri il valore dell’area, passando per autorizzazioni pubbliche.

Il famoso video nel quale si vede il sindaco mostrare a Chiang - tra altre aree - le immagini dei Pili garantendogli che vi avrebbe potuto costruire qualsiasi cosa: “What you want”, traduce Cerron. Ma i Pili sono ancora là.

Tutto è nato dagli esposti dell’imprenditore trevigiano Claudio Vanin, che è stato risentito anche lui in corso d’inchiesta.

Ormai mancano poche settimane per chiudere le indagini e si vedrà quali carte la Procura ritiene di avere per chiedere o meno il rinvio a giudizio per tutti gli indagati e per quali delle accuse sinora ipotizzate. E si vedrà se i “Pili” ci saranno o meno.

Ci sarà, invece, la parte degli altri episodi di corruzione e turbativa contestati - intercettazioni alla mano - all’ex assessore alla Mobilità Renato Boraso e manager pubblici che avrebbero per l’accusa accettato di pilotare appalti a favore della rosa di imprenditori pronta a pagare l’interessamento di Boraso.

Tra gli indagati, Francesco e Carlotta Gislon, che hanno visto rigettare dal giudice per le indagini preliminari la revoca dei loro arresti domiciliari.

«Boraso Renato ha ammesso che i due imprenditori avevano con l’assessore un rapporto privilegiato finalizzato ad ottenere informazioni riservate sulle gare in corso», scrive il gip Scaramuzza.

Si tratta della prima testimonianza ufficiale - oltre alla logica del fatto che in 40 ore interrogatorio, in oltre due mesi di carcere, silente non era certo stato - che l’ex assessore abbia ammesso almeno in parte proprie responsabilità nell’ambito delle accuse di corruzione nell’inchiesta “Palude”.

In particolare, nell’ordinanza il gip ricorda come nel caso di Francesco Gislon «sia stato posto agli arresti domiciliari esclusivamente per ragioni di età», evitando così il carcere, e «come sia emersa l’assoluta sistematicità del rapporto economico con l’assessore con cui vi era un accordo di corruzione per l’esercizio della funzione, perfezionato da anni, per il quale Boraso è risultato destinatario di dazioni corruttive pluriennali».

È sempre l’accusa che parla, a decidere saranno i giudici. Intanto dopo quasi tre mesi di carcere e 5 interrogatori, ci si aspetta che Boraso - in carcere dal 16 luglio - vengano presto concessi quantomeno gli arresti domiciliari.

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