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Mafia, Brusca si racconta in un libro. L’autore don Cozzi: “Polemiche? Il male va affrontato se vogliamo che l’antimafia sia più incisiva”

“Se qualcuno ha delle perplessità su questo libro, lo capisco ma lo invito a entrare nelle pagine: non troverà alcun elogio di un mostro che si fa santo, nemmeno il testamento di Giovanni Brusca. Troverà il mio racconto, la mia fotografia, quella dei nostri incontri”. Don Marcello Cozzi, ex vicepresidente di Libera e una lunga esperienza di dialogo con pentiti di mafia e collaboratori di giustizia, così introduce il suo Uno così. Giovanni Brusca si racconta, il volume in cui dà voce al più spietato dei killer di cosa nostra.

Don Cozzi, che uomo si è trovato davanti la prima volta che vi siete incontrati?

La prima volta ricordo una figura che definirei anonima. Avevo come tutti negli occhi la foto dell’arresto e mi sono trovato di fronte a qualcosa di completamente diverso: sembrava un anonimo impiegato di un qualche ufficio pubblico, uno di quelli di cui il mondo non sa niente. Al collo aveva un paio di occhialini. Una cosa banale, non però se pensi di avere di fronte a te il mostro.

E dopo?

Ho conosciuto una persona con la quale ho chiacchierato e chiacchiero tantissimo: tante domande, discorsi, analisi. Il nostro è un rapporto molto franco e sincero in un percorso di ricerca e trasformazione.

In Italia spesso si confonde la categoria giuridica della collaborazione, che garantisce benefici di legge, con il pentimento, che ha che fare con altro. Secondo lei, Brusca dove si colloca?

Brusca è sicuramente un collaboratore di giustizia, ha dato un notevole contributo ai processi, ma nello stesso tempo è una persona che guarda molto al suo passato, che vive con un peso difficile da sopportare. Si fa tante domande sul male che ha provocato, ma pentimento è una parola che non uso mai. Di “pentiti” ne ho incontrati più di cento, alla fine ho capito che si tratta solo di un gergo mediatico. A volte percepisco segnali incoraggianti, a volte meno. Di questi cento ne sento ancora una ventina, con il passare del tempo ti rendi conto di che tipo di percorso hanno fatto…

Quanto di cristiano, quanto di civile e quanto di letterario c’è in questo lavoro?

Di cristiano c’è tanto, c’è poco di religioso ma tanto di Vangelo, ossia la ricerca dell’incontro con gli altri, con i demoni che gli altri portano dentro. Dobbiamo imparare a fermarci come faceva Gesù, che non temeva il giudizio delle folla quando si intratteneva con persone scomode.

Questo libro è anche il simbolo di una vittoria dello Stato? Quantomeno su quel tipo di mafia sanguinaria corleonese?

Assolutamente sì, ed è stato lo stesso Brusca a dire che lo Stato con lui ha vinto, che senza Giovanni Falcone non si sarebbe mai potuto sedere a un tavolo in mia compagnia. E lo Stato ha vinto, come diceva Giovanni Falcone, proprio perché ha dimostrato di essere Stato, ha avuto la capacità di vedere la persona, di non confondere la giustizia con la vendetta.

La famiglia di Santino Di Matteo non ha gradito né il libro né che si pensi di presentarlo a San Giuseppe Jato…

Io non voglio e non devo convincere nessuno, questi non sono percorsi che si possono imporre. Ho profondo rispetto per la famiglia e per le vittime innocenti che la violenza mafiosa l’hanno subita sulla loro pelle, ma per me è un percorso necessario, se vogliamo che l’antimafia sia ancora più incisiva. Parliamo tanto di confisca dei beni mafiosi, ma il bene più prezioso da confiscare sono i mafiosi stessi, le persone.

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