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Il Marco Polo di Paolini torna a Venezia  

Venezia come approdo inevitabile. A venticinque anni – o poco più– dalla famosa diretta televisiva sull’acqua e a 700 anni dalla morte di Marco Polo, dal 23 al 27 ottobre al Goldoni di Venezia tornerà “Il Milione” di Marco Paolini, uno degli spettacoli che hanno segnato il teatro italiano di fine secolo. Ma torna, appunto, come terminale di un viaggio in quattro tappe cominciato un mese fa sulla Marmolada.

Questa ripresa di “Il Milione” si presenta come quinta tappa di Mar de Molada, il viaggio teatrale che ha intrapreso per raccontare le acque, e la crisi idrica, del Veneto.

«Lo è di fatto. Concluso il percorso sulle acque dei fiumi, mi pare giusto che si arrivi alla laguna, che si pensi a Venezia non come un unicum, ma come uno specchio per ripensare il concetto di terraferma; perché noi la dimostrazione di quanto poco ferma sia la terra ce l’abbiamo sotto il naso: per la fragilità idrogeologica, per il peso sproporzionato che ha il consumo di suolo. Apparentemente Venezia è una città intoccabile, un miracoloso equilibrio precario, ma ora il peso del turismo sembra in qualche maniera prendere il sopravvento su quello che è il suo equilibrio funzionale. Queste però sono considerazioni sociologiche e io non faccio spettacoli a tesi. “Il Milione” rimane anche un personalissimo viaggio, immaginando di essere Marco Polo e di andare in Cina: quindi immaginando un altrove che è fuori dalla porta di casa».

Lo stesso spettacolo di 25 anni fa o una modernizzazione?

«Mi sono posto il problema della attualizzazione, ma credo che “Il Milione” vada narrato così com’era, prima dei telefonini, prima delle maschere anticovid; forse in questo caso meglio lasciarlo come una polaroid: i colori sbiadiscono ma resta il senso della foto».

Quella di una Venezia diversa.

«La città è cambiata, allora non c’erano i B&B, non era esplosa la questione delle crociere, il Mose non funzionava ancora. Un’altra era. “Campagne” – il personaggio guida – arrivando a Venezia dalla terraferma vedeva per prima cosa la scritta Campari che ora non c’è più. Piazzale Roma, nel frattempo, ha cambiato assetto più volte. Quindi evidentemente alcune cose nello spettacolo sono riferite a un passato, ma il pensiero che mi guida è quello di un viaggio, che può mantenere il suo andamento di favola, di labirinto con qualche pennellata nuova qua e là. Però, in rapporto a “Mar de Molada”, la metafora di come cambia il paesaggio in terraferma e di come cambia il paesaggio invisibile di una di una città credo funzioni».

Già allora al centro del suo interesse c’era l’acqua.

«Per me che arrivo dalla campagna quelle rive senza barriera sono minacciose, ma proprio questo mi ha spinto a raccontare la città da un altro punto di vista, che è quello dei canali. E c’è anche altro. Venezia ha sempre avuto a che fare con un problema di scarsa risorsa idrica ed è riuscita a inventare delle soluzioni per risolvere questo gap attraverso sistemi di raccolta dell’acqua piovana che poi veniva immagazzinata al centro del campo, sotto, nella cisterna del pozzo. Così come il governo della laguna da parte della Repubblica ha permesso di allungare la vita biologica della laguna che già circa 500 anni fa era destinata all’interramento».

Con che spirito salirà sul palco?

«Dopo tanti spettacoli, alcuni più riusciti, altri meno, la tentazione di riprendere in mano il repertorio per rifinire le cose e perfezionarle c’è. Ma avverto anche il rischio di implosione che questo comporta. Quindi sarà una cosa mirata solo su Venezia, anche per ricordare quello sforzo enorme di tutta la città che c’era dietro la diretta televisiva dall’Arsenale, con il coinvolgimento delle società remiere, dei gondolieri, dei trasporti pubblici. Oggi quella coesione, quel lavorare in rete sembra non appartenere più alla città, che offre certamente eventi di prima grandezza, ma con altro spirito. Con il proliferare di fondazioni, di spazi espositivi e performativi, Venezia è diventata una straordinaria città vetrina, con attori culturali internazionali anche di grande qualità, ma ognuno di loro sembra essere estremamente geloso della propria identità, senza mettere nulla in comune».

Cosa ha imparato dai suoi quattro spettacoli lungo il Piave?

«Molte cose. Pensavamo di raggiungere l’obiettivo di 8000 spettatori e lo abbiamo raggiunto anche se per esempio nella prima tappa sulla Marmolada con una temperatura di soli 4 gradi e un gran vento ci sono parse tante anche le 800 persone che sono arrivate. “Mar de Molada” faceva tesoro dell’esperienza di “Vajont 23”, senza avere una storia forte come Vajont da raccontare. L’idea era quella di superare il monologo e quindi sul palco siamo stati in tanti: artisti veneti ma anche cittadini comuni, chiamati a comporre il coro che accompagnava la narrazione. Questo modo di lavorare è irrinunciabile perché il teatro, almeno come lo penso io, ha bisogno di una messa a terra che possa in qualche maniera interagire con la politica, con la vita dei cittadini. Non puoi restartene al coperto, giocare nella tua riserva di caccia, devi avvicinarti ai confini sia geografici sia professionali, e coinvolgere i cittadini, rendendoli protagonisti anche sul palco, è fondamentale».

E l’esperienza come continuerà?

«Non è replicabile, ma non andrà persa. Come in “Vajont 23” metteremo i materiali a disposizione di tutti in vista, il prossimo anno, di un progetto che abbiamo chiamato “Atlante delle rive” in cui vogliamo coinvolgere tanti gruppi teatrali che potranno usare liberamente ciò che abbiamo fatto, ma anche adattarlo a realtà diverse o produrre altro materiale per raccontare i fiumi».

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