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L’uragano Milton è già dimenticato: mi spaventa che non potremo tornare indietro sul clima

di Carmelo Zaccaria

Dopo aver destato parecchia preoccupazione per la sua potenzialità distruttiva, l’uragano Milton è scomparso definitivamente dalla cronaca, declassato a fenomeno ordinario, consueto, la cui violenza può essere tranquillamente associata ad una categoria prossima allo zero. Tutto dimenticato dunque, l’allarme disperato, l’evacuazione di massa, le file chilometriche di auto, l’inondazione, i morti.

Ma di questa devastazione, a parte le clip che mostrano la desolazione dell’area flagellata, rimane impresso nella mente l’orrido color viola del cielo della Florida e la commozione in diretta televisiva di John Morales, veterano delle previsioni meteorologiche, mentre, prostrato, cerca di spiegare al pubblico le nefaste conseguenze dell’uragano che vede avvicinarsi minaccioso.

Quel suo sguardo affranto, quell’improvviso contraccolpo di scoramento, è sembrato un atto di resa consapevole, ineluttabile, di fronte ad un evento atteso e temuto, che, nonostante studi e previsioni scientifiche inoppugnabili, non è stato possibile controllare né scongiurare. Demoralizzato e oppresso dalla propria impotenza, i suoi occhi sgomenti dichiarano al mondo: tocca arrendersi, non c’è più niente da fare, saremo ancora una volta costretti a pagare dazio, a trattenere il fiato colmo di angoscia.

Quel lamento pudico e malinconico, per quell’aggrovigliarsi terrificante e vorticoso di onde gigantesche trascinate verso terra da un vento impetuoso e maligno, come non se ne sono visti sino ad ora, dimostra che al momento, in assenza di una strategia univoca capace di ridimensionare in futuro scenari che possono presentarsi ancora più terrificanti, non resta che ritirarsi in buon ordine o affidarsi alla divina provvidenza.

Quando si è consapevoli della propria negligenza e si tollerano eventi così devastanti, rimuovendo in fretta e furia le cause della loro indomabile irruenza, quando le spiegazioni degli scienziati non servono più, quando la soluzione migliore è quella di continuare a negare in modo sfacciato l’evidenza, allora al buon John Morales, solitario triste y final, non resta altro da fare, di fronte al mostro dalle cento teste che irrefrenabile avanza intorbidendo e scalciando le acque dell’Oceano, che trovare il coraggio che molti umani non hanno nella loro riprovevole supponenza, di chiedere perdono anche per conto nostro: “Scusate, fa davvero paura“.

L’uragano Milton non è altro che il figlio legittimo di quella scienza umana che lo aveva già previsto, studiato e annunciato. Con l’attuale riscaldamento globale, le acque come quelle del Golfo del Messico sono talmente calde da caricare di una energia formidabile i fenomeni meteo, una energia che si trasforma in giganteschi sconvolgimenti; le alte temperature del mare intensificano e accelerano, fanno da detonatore ad eventi catastrofici enormemente superiori a ciò che eravamo abituati a prevedere sino a qualche decennio addietro.

Oggi non si nega più tanto l’insorgenza di fenomeni climatici estremi, che si presentano con sempre maggiore intensità e frequenza, quanto al fatto ben più sconsolante di non riuscire a cambiare registro, cioè ad intervenire con meno ritrosia a salvare il pianeta. Iniziamo a credere, anche se in modo discreto, che il riscaldamento globale e l’effetto serra sono fenomeni provocati dall’uomo, benché ci rifiutiamo di avviare una riconversione ecologica in grado di attutire i suoi effetti deleteri.

Riteniamo, ma solo per convenienza, che gli eventuali costi da sostenere per la riconversione produttiva siano troppo dispendiosi, rigettando l’idea, altrettanto palese, che finanziare i disastri irreversibili provocati dalle devastazioni climatiche probabilmente avrà un prezzo da pagare ancora più salato.

Tuttavia c’è ancora chi scommette che prima o poi la Terra dovrà raffreddarsi bloccando l’innalzamento globale delle temperature e senza dover necessariamente ridurre le emissioni di anidride carbonica. Le scommesse, si sa, sono dannose, nuocciono alla salute.

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