«E la vita l’è bela»: la versione di Cochi Ponzoni, 60 anni di carriera tra cabaret e teatro
Milanese da generazioni, nato durante la guerra in via Vincenzo Foppa dove ancora tra le case spuntavano orti e campi. Cresciuto nella Milano che non esiste più, quella delle osterie come l’Oca d’oro, dove incontrava gli artisti Piero Manzoni e Lucio Fontana, gli scrittori Dino Buzzati, Luciano Bianciardi, Dario Fo. Aurelio Ponzoni, in arte Cochi, ripercorre in un libro, La versione di Cochi (Baldini + Castoldi, a cura di Paolo Crespi), sessant’anni di spettacolo, di teatro, cabaret, cinema, tv. Sessant’anni scolpiti nell’immaginario degli italiani anche grazie a tormentoni come E la vita , la vita o Canzone intelligente. Martedì 5 novembre, alle 18.30, sarà a Pavia, ospite di collegio Fratelli Cairoli, Lions Club Pavia Le Torri, Biblions e libreria Vittoria.
Cochi classe 1941, Renato (Pozzetto) 1940. Il 2024 è per entrambi l’anno delle autobiografie.
«Si, ma separate perché siamo molto amici, quasi fratelli, complementari ma diversi. Come giocare una partita a tennis. E’ sempre stato così» ammette Aurelio Ponzoni.
Vi conosciute sin da bambini, sfollati con le famiglie a Gemonio.
«Si proprio nel paese di quel pezzo da novanta là (Umberto Bossi, ndr)».
Poi a Milano stessa scuola.
«No, stesso edificio,l’istituto Cattaneo: io ragioniere, lui geometra».
Più che di numeri e calcoli, però, lei pare fosse appassionato di lingue straniere.
«Inglese, francese e tedesco. Avevo proprio una mania per le lingue. E in quegli anni non eravamo mica in tanti a conoscerle. Per questo mi presero subito all’aeroporto di Linate, lavoravo al banco del check-in per la Lufthansa e per la British.».
Da impiegato a comico, come è successo?
«In verità fin da ragazzino, a 14 anni, recitavo nella compagnia dilettantistica Teatro Angelicum. Desideravo esibirmi».
Però l’humus fertile sono state le vecchie osterie milanesi.
«La sera, dopo il lavoro, con Renato giravamo per le osterie con la chitarra. A quel tempo erano piene di pittori e intellettuali. Come pure il Bar Jamaica. Luoghi tanto diversi da quelli di oggi. Ci potevi trovare la malavita dell’epoca, l’ubriacone del quartiere ma anche Umberto Eco, che amava passeggiare la sera, artisti come Buzzati o Fontana, che tra l’altro è stato il nostro primo sostenitore. E poi Jannacci, Gaber (che gli insegna a suonare la chitarra, ndr), Dario Fo e Franca Rame».
Qualche ispirazione per le gag è forse nata lì?
«Molte delle nostre scenette sono nate in quelle serate, cercavamo i personaggi più strambi, stralunati».
Il passatempo diventa un vero lavoro nel 1964, al Cab 64. E poi al Derby.
«Di fianco all’Oca d’Oro c’era una galleria d’arte, La Muffola di Tinin e Velia Mantegazza che, a un certo punto, presero il sottoscala di un bar in via Santa Sofia per farci il “Cab 64”. E lì è iniziato tutto».
E’ il 1968, prima puntata di “Quelli della domenica”. Un dirigente Rai avrebbe detto: «Piuttosto che mandare in onda quei due scemi, mando un documentario».
«Si, è vero. Ce l’aveva con noi e anche con Paolo Villaggio. Forse era abituato alla comicità di Totò. C’era chi non capiva le nostre battute che invece divertivano molto gli intellettuali e gli artisti ».
Le piacciono i comici di oggi?
«No. Ma sono anche cambiati i tempi. La società si è evoluta o involuta a seconda di come la si interpreta. Il linguaggio è legato al reale: la coda al supermercato, la fidanzata. Io mi diverto di più con Aldo Giovanni e Giacomo, con Antonio Albanese, il Mago Forest e la Gialappa’s».
Nel 1975 si separa da Renato e scompare dalle scene.
«Una separazione consensuale. Renato ha fatto cinema e io, per vent’anni, mi sono dedicato al teatro. Sono sempre stato un gran lettore e il mio sogno era quello di diventare un attore di prosa».
Cochi è stato in scena con Le ferite del vento di Juan Carlos Rubio per tutto il 2023. «Ora sono in tour per presentare il libro su e giù per l’Italia e mi diverto molto». —