Milano in mano a ricchi e immobiliaristi: così la ‘rigenerazione urbana’ produce città segregate
La cappa di silenzio che protegge la peggiore politica di Milano è spessa, è una coltre fatta di potere mediatico difficilissima da bucare. Certo, nel resto d’Italia si è finalmente capito che è una città per ricchi, e che agli altri tocca soffrire, ma le notizie sulle crisi continue provocate dal suo folle modello di crescita urbana sono accuratamente occultate e minimizzate da giornali e tv, che dall’Expo in poi continuano ad alimentare una narrazione fatta di propaganda e censura.
Una sequenza di inchieste giudiziarie su operazioni selvagge di rigenerazione urbana stanno rivelando un sistema sempre più esteso di densificazione turbolento, insofferente delle regole e portatore di gigantesche ingiustizie sociali, ma nessuno sembra accorgersene. La giunta che si definisce di centrosinistra ha confezionato insieme alla destra estrema un provvedimento governativo che forza l’interpretazione delle leggi urbanistiche sull’intero territorio nazionale, ma facciamo ancora finta che esista un’opposizione. Questa nuova legge instaura un regime di laissez-faire sulla rigenerazione che rende tutte le istituzioni pubbliche italiane più impotenti di fronte alle decisioni sulla trasformazione del proprio territorio, assoggettandole al potere dei privati, ma noi continuiamo a distrarci con degli insulsi gossip sui funzionari del ministero della Cultura.
Quali sono le conseguenze materiali di questo accanimento sul piano puramente simbolico da parte della sinistra? Che città produce, e che economia produce?
Probabilmente la maggior parte delle persone è stata convinta dal costante flusso di immagini e render che rimuovere i vincoli all’iniziativa privata produce città forse un po’ troppo di lusso, ma sempre più belle, sostenibili e vitali. È il contrario: abbiamo migliaia di esempi di città cresciute in funzione della massima rendita, e non assomigliano affatto ai render.
Partiamo da un assunto banale, ma dimenticato: l’interesse dei proprietari e degli investitori nel settore edilizio-immobiliare è trarre il massimo profitto possibile da ogni metro quadro, non regalare spazi pubblici e verdi alla città come ormai ritualmente dichiarano, né case popolari e a basso costo, né bellezza e servizi democratici. Se si lascia a loro il controllo dell’evoluzione urbana, produrranno inevitabilmente delle città sempre più segregate: dense, ma belle (fatti salvi i gusti personali – forse meglio dire “curate”) nei luoghi destinati al lusso, e invece densissime, ma prive di qualsiasi grazia e lasciate al degrado nel resto della città.
Pensiamo a Hong Kong: una scenografia spettacolare di edifici brillanti affacciati sulle acque, ma dietro una selva impenetrabile di grattacieli sporchi, altissimi e attaccati uno all’altro, senza aria luce e spazi pubblici, fatti di appartamenti soffocanti di pochi metri quadri comunque carissimi. Seoul, idem: i nostri social sono inondati di foto di un ameno canale fatto riemergere al posto di una strada cementosa, ma è quasi l’unico, misero spazio pubblico in una città di palazzoni informi. Le grandi periferie del Cairo, o di San Paolo – ulteriormente stratificate negli insediamenti informali. I quartieri collinari costruiti durante il Sacco di Napoli, quello immortalato da Rosi nel famoso film, o a Roma, Milano e in altre decine di città italiane, spagnole, turche, purtroppo più del sud che del Nordeuropa. Sono il frutto dell’avidità immobiliare, non della pianificazione sovietica o dell’architettura modernista.
Sostituire la parola “urbanistica” con la più benevola “rigenerazione urbana” non solo non è un modo di riportare la qualità nelle città, ma paradossalmente è un sistema per affossarla impunemente. Come spiega Arturo Lanzani, urbanista del Politecnico di Milano, nel suo recentissimo libro Rigenerazione urbana e territoriale al plurale. Itinerari in un campo sfocato, oggi in Italia tutto viene definito rigenerazione, dalle piazze aperte ai grandi progetti urbani, dal riuso temporaneo al ridisegno di interi territori. Una definizione così vasta implica forti dosi di ambiguità, ed è per questo spesso il motore di disuguaglianze urbane e territoriali e delle pessime pratiche comunicative del greenwashing e del socialwashing.
Vale assolutamente la pena di leggere questo saggio denso e teso, uno strumento indispensabile per ricostruire le storture ideologiche che hanno portato alla retrocessione del governo pubblico dei territori e ad accettare l’idea della pura facilitazione degli interessi privati. Per uscire dall’incubo.
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