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Fondazione Di Vittorio: “Tra 1991 e 2023 salari reali calati di 1000 euro. Negli ultimi quattro anni l’inflazione ne he fatti perdere oltre 5mila”

C’è “una emergenza salariale” e “bisogna porre con forza la questione”. Per questo l’aumento dei salari e il rinnovo dei contratti per un nuovo modello economico e sociale “sono punti centrali” dello sciopero del 29 novembre. Lo ha sottolineato il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, ricordando che “ci sono quasi 6 milioni di lavoratori nel nostro Paese che non superano 11mila euro l’anno” . Sul rinnovo dei salari pubblici, secondo Landini, serve un referendum tra i lavoratori, perché il governo propone aumenti “del 6% quando l’inflazione è del 17% il che vuol dire in realtà programmare la riduzione del potere d’acquisto”, proposta che Cgil e Uil respingono al mittente. Per l’occasione la Fondazione Di Vittorio ha poi anticipato i risultati di una relazione sull’andamento dei salari negli ultimi trent’anni.

Il trend è quello tristemente noto: tra 1991 e 2023 quelli italiani, a prezzi costanti, sono diminuiti di oltre 1000 euro mentre in Germania salivano di oltre 10mila, in Francia di oltre 9.600 e in Spagna di 2.500. Un andamento legato anche, ricorda lo studio, al ristagno della produttività, che dipende in gran parte dagli strumenti messi a disposizione del lavoratore.

Cumulativamente, in Italia il mancato adeguamento dei salari all’inflazione ha generato un perdita di oltre 5mila euro in quattro anni: si tratta della differenza tra le retribuzioni contrattuali e il livello a cui sarebbero arrivati i salari se fosse scattato in modo automatico l’adeguamento all’inflazione. Nel dettaglio, la perdita cumulata sulle retribuzioni contrattuali, in rapporto all’inflazione, tra il 2021 e il 2024 è stata di 5.322,9 (tenuto conto degli sgravi contributivi) e nel 2029 – in base a una simulazione che tiene conto delle stime del governo nel Psb – potrebbe arrivare a oltre 15.500 euro.

Un dato su cui pesa anche il mancato rinnovo dei contratti: a settembre 2024 risultano in vigore 46 contratti nazionali che riguardano 6,2 milioni dei dipendenti, ma restano da rinnovare i 29 contratti che riguardano 6,9 milioni di lavoratori, più i 3,5 milioni di lavoratori pubblici. Se nel 2024 le retribuzione contrattuali medie sono aumentate da 27.911 a 28.916 euro (Istat) è grazie ai rinnovi del ccnl del commercio, firmato il 22 marzo con un aumento una tantum di 350 euro e un’integrazione di 250 al IV livello e di credito e assicurazioni (435 euro di aumento per la figura media) e al fatto che quello dei metalmeccanici e del legno prevedono un recupero dell’inflazione.

Perché è successo? La quota dell’industria manifatturiera ad alta tecnologia è scesa dall’11% (2010) al 10% (2019). I servizi a bassa qualificazione sono aumentati dal 49% al 53,6% nello stesso periodo. La perdita di posti di lavoro ad alta
produttività ha ridotto salari, tutele sindacali e opportunità di carriera. Si è ampliata l’occupazione nei servizi a bassa produttività, con bassi salari e scarse prospettive professionali. L’economia italiana si è indirizzata verso una crescita lenta, con poco valore aggiunto, bassi investimenti in tecnologia e produttività. Il Jobs Act “ha contribuito al peggioramento della qualità del lavoro, incentivando contratti a termine e part-time nei servizi meno qualificati”.

Le aziende ne hanno beneficiato: ciò che è stato perso dal lavoro è andato ai profitti. Esaminando i dati cumulativi sui bilanci di 1900 società industriali e terziarie riportati da Mediobanca, la fondazione trova che nel 2023 il rientro dell’inflazione ha riportato i costi per acquisti di beni e servizi attorno all’85% del fatturato, non lontano dai valori pre-pandemici (84%). Ma nel frattempo il costo del lavoro invece si è ridotto il che “consente margini di conto economico positivi in termini di utili netti che sono ai massimi del decennio e pari al 5,4% del fatturato che si sono trasformati in maggiori Dividendi nonostante i maggiori oneri finanziari”

Sulla generale stagnazione dei salari pesa anche la moltiplicazione dei contratti e l’aumento di quelli “pirata”: nel 1995 erano in vigore 190 Contratti Nazionali di Lavoro, nel 2022 sono 940. Per questo la Cgil torna a chiedere una legge sulla rappresentanza. Che molti giuslavoristi del resto ritengono indispensabile alla luce della direttiva Ue sul salario minimo, che non impone di fissare un minimo legale nel caso in cui la copertura della contrattazione collettiva sia molto ampia. Per dimostrare che questa condizione sia rispettata servirebbe sapere quanto siano davvero rappresentative le sigle sindacali e le organizzazioni datoriali, cosa che al momento in Italia resta un mistero.

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