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Quando la copertina dell'album è un'opera d'arte

Sopracciglia, baffi bruciati e tanta paura: è questo il prezzo pagato dallo stuntman americano Ronnie Rondell per realizzare una delle cover più iconiche di sempre: Wish you were here dei Pink Floyd. Siamo a metà anni Settanta, in California, davanti ai capannoni dei Warner Studios a Burbank. Rondell ha una pellicola protettiva e ignifuga sul viso, ma al momento della prima stretta di mano con l’altro stuntman un colpo di vento devia le fiamme sul suo volto e lui si getta a terra.

Viene salvato dagli uomini della sicurezza con coperte e schiumogeni. Rondell è quasi incolume e i Pink Floyd hanno la cover che volevano o meglio quella che avevano commissionato al fotografo e designer inglese Storm Thorgerson, il genio che ha fatto “vedere” la musica come nessun altro, rendendo surreali, a volte indecifrabili, ed eterne le copertine di Led Zeppelin, Genesis, Peter Gabriel e, naturalmente Pink Floyd, incluso l’artwork di The Dark Side Of the Moon. Nel caso di Wish you were here le fiamme sono la metafora della paura di rimanere “scottati” dai rapporti umani, sono la rappresentazione dell’assenza di uno dei membri originari dei Pink Floyd, Syd Barrett, “bruciato” cerebralmente dagli abusi di sostanze lisergiche.

Sono vere opere d’arte le copertine d’autore di alcuni degli album più importanti di sempre, qualcosa che si identifica per sempre con la musica contenuta nei solchi dei 33 giri anche se in apparenza non esiste una relazione diretta tra il design e il contenuto delle canzoni. Jeff Koons, ad esempio, per l’album Artpop ha trasformato Lady Gaga in una statua tridimensionale con un’enorme sfera blu tra le gambe e uno sfondo di dettagli e frammenti che includono l’Apollo e Dafne di Gian Lorenzo Bernini e La nascita di Venere del Botticelli.

Nel 1967 Andy Warhol, manager dei Velvet Underground & Nico, all’interno del suo progetto di trasformazione di oggetti d’uso quotidiano in dichiarazioni artistiche (vedi il celeberrimo barattolo della zuppa Campbell) sviluppò il “banana concept” in tutta la sua valenza erotica. Nella prima versione della cover la banana era un adesivo che una volta rimosso svelava l’intero frutto sbucciato e di color rosa. L’idea venne poi accantonata per gli eccessivi costi di produzione. Quella di Warhol era un’allusione esplicita che flirtava con la New York oscura, trasgressiva e decadente presente nel testi del gruppo di Lou Reed, tra sesso, prostituzione, sadomasochismo, droga e follia. È il tocco del genio, come quella della rockstar italiana del fumetto Andrea Pazienza, che reinventa i volti e le sembianze degli autori del disco. Lo ha fatto per la PFM in Passpartù e con Roberto Vecchioni nell’album Robinson. E poi, ancora, l’artista senza volto, il re della street art, Bansky, che caratterizza per sempre la musica dei Blur nel 2003 con la copertina del disco Think Tank, il disegno di due ragazzi che tentano di baciarsi con un casco da palombaro in testa.

Oltre ai disegni ed alle elaborazioni grafiche c’è poi il valore della fotografia nella sua semplicità e unicità. Come quella scattata da Annie Leibovitz a Bruce Springsteen per la leggendaria copertina di Born in The U.S.A, con il rocker di spalle in jeans e maglietta, con un cappellino rosso in tasca, davanti a una bandiera a stelle e strisce Lo scatto perfetto per congiungersi con il concept del titolo del disco: “Sono nato negli Stati Uniti”

Persino Salvador Dali ha dato il suo contributo alla “cover art” con un dipinto desertico realizzato ad hoc per Lonesome Echo, album dell’attore, personaggio tv e musicista americano, Jackie Gleason, un best seller uscito nel 1955. «Ho voluto disegnare l’angoscia dello spazio e della solitudine e poi la fragilità delle ali di una farfalla» spiegò ermeticamente Dalì poco dopo la pubblicazione del disco. Sono centinaia le storie dietro le copertine d’artista (fino al 6 gennaio al Fellini Museum Rimini c’è la mostra Da Picasso a Warhol - Le vinyl cover dei Grandi Maestri) quasi tutte legate da un filo rosso che conduce al 1967 e alla cover dei Beatles di Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band, considerata il momento più alto della Pop Art, a cura di Peter Blake e di sua moglie, Jann Haworth. L’idea era ricreare attraverso ritagli di cartone un parterre di celebrità (da Fred Astaire a Marilyn Monroe passando per Oscar Wilde e Albert Einstein) per un immaginario concerto dei Fab Four. E fu un capolavoro.


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