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Quel che resta del Futurismo

Era l’imperativo del Futurismo, il movimento più vitale del Novecento tra pittura, letteratura e teatro. Un «incendio creativo», appiccato da Marinetti, che troppo presto diventò cultura accademica e appoggio politico. Ma cosa è stato il Futurismo che mise a soqquadro il mondo?


Il prossimo 2 dicembre nell’ottantesimo anniversario della scomparsa del suo fondatore, Filippo Tommaso Marinetti, si aprirà alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma una grande mostra, con tanto di convegno e catalogo sul Futurismo. Proviamo a rimetterne insieme i cocci. Per cominciare, audacia è la parola d’ordine del Manifesto futurista. L’entusiasmo per l’infinito, l’ebbrezza delle velocità che corre verso la luce e l’assoluto. Anche i verbi nel Futurismo vanno all’infinito, mentre le parolibere nuotano nel cielo e la punteggiatura va a farsi benedire. È guerra alla forza di gravità. A capitanarli è il loro galvanizzatore, FTM, erotico, giocoso, bellicoso.

Curioso il Futurismo, è il primo movimento d’arte totale proteso nell’universo, senza confini, fenomeno globale dall’America alla Russia, ma al tempo stesso è legato all’amor patrio e alla nazione. La famiglia è vista dai futuristi come una prigione da scardinare nel nome della liberazione del sesso; Dio deve liberarsi delle chiese, mettersi al passo della velocità futurista e accettare che alla natura da lui creata si aggiunga la creazione della tecnica, opera del suo sostituto procreatore, l’uomo. Ma la patria, no, la patria non si tocca per i futuristi, è il perno del loro credo, nonostante la portata globale del movimento e degli ambiti che persegue.
Il Futurismo fiorisce tra Milano e Parigi, che lo amplifica a evento mondiale, con sosta artistico-letteraria a Firenze, ma poi dilaga a Mosca e New York: è il primo movimento davvero globale. Il futurismo non si limita all’arte, si dilata all’architettura, alla letteratura, alla cucina, al costume, al teatro, al cinema, alla radio, alla musica, alla tecnologia, alla guerra, alla politica, insomma alla vita e alla morte. Uno «stil novo» tecnologico fondato sul mito della macchina, delle officine e della velocità.

Una forma di delirio dionisiaco, non più indotto dal vino e da eros ma dall’ebbrezza della velocità, congiunta al mito della macchina che mette le ali alla condizione umana. Il Futurismo diventa il canto della società industriale, l’arte applicata all’epoca del capitalismo. La velocità per Marinetti è la nuova religione della modernità. La macchina unita alla velocità delinea anche una nuova grafica e una nuova estetica, nuovi costumi e più slanciati design; anche i corpi tendono quasi a fendere l’aria, a farsi aerodinamici, appuntiti.

La magrezza diventa sinonimo di bellezza, la grassezza evoca la lentezza, la viltà borghese, il panciafichismo goffo. La velocità delle macchine, a cominciare dalle automobili, è segno di esuberanza e di vitalità, insomma di felicità. Il culto della velocità si unì nel Futurismo al mito della giovinezza di cui fu impregnato il Novecento. La gioventù futurista diventa col fascismo «giovinezza primavera di bellezza». La gioventù futurista è una gioventù bruciante; mezzo secolo dopo la parabola giovanilista declinerà nella gioventù bruciata, per finire poi nel Sessantotto. Attivismo assoluto, agito ergo sum. C’è la modernità alla massima potenza e c’è il germe del fascismo come attivismo e volontà di potenza.

Il culto della velocità si fece poi maniera, così come il futurismo ebbe il suo rococò ed entrò perfino nelle detestate accademie. Al punto che si può azzardare un’archeologia della velocità, qualcosa che evoca la Vittoria di Samotracia, esaltata da Marinetti (e superata dall’automobile). Anche la velocità finì in museo, imbalsamata come una tentazione ardita del passato. Restò la velocità dei rapporti telematici, che si fece anzi simultaneità; ma si perse il suo mito, applicato alla vita e alla macchina.

L’ideologia di Marinetti riverbera nei nomi dati alle sue tre figlie: Ala, Luce e Vittoria. La parola chiave per intendere l’epoca e la punta acuminata del Futurismo è fiamma, cioè fuoco, ardere/ardire. «Allegri incendiari dalle dita carbonizzate» li definisce il Manifesto futurista, e vari poeti futuristi, perfino Palazzeschi, dedicano versi al fuoco; dietro quel fiammeggiante universo c’è il Fuoco, dall’omonima opera di Gabriele D’Annunzio allo scoccare del Novecento e tutto il richiamo di fiamme, faville, scintille, fiaccole e arditi che incendia il primo ventennio del secolo scorso.

Prima fenomeno artistico, poi interventismo bellicoso, il Futurismo si fa movimento politico, alleato al nascente fascismo. Quando il futurismo assunse connotati politico-rivoluzionari, si presentò come una promessa integrale di svecchiamento; via il senato, via il papato, via la monarchia, via i parassiti, via il matrimonio. Democrazia economica, parità dei diritti, espropri. Al centro del Novecento come del futurismo è l’uomo nuovo, il mondo nuovo, l’ordine nuovo che per i futuristi è in realtà un disordine nuovo, ma creativo. Marinetti è definito dal «passatista» Prezzolini un «formidabile disorganizzatore». Fascista e sfascista.

Del Futurismo restano molti annunci di rivoluzione senza seguito: come i bozzetti di architettura futurista di Sant’Elia, l’indigeribile ma stravagante cucina futurista, l’assurda e non indossabile moda futurista, la rumorosa inascoltata musica futurista, il teatro, il cinema futurista e via dicendo. Resta invece, e smagliante, la pittura futurista, la scultura, un po’ meno la poesia. Un’avanguardia inconclusa, che perciò resta sempre giovane promessa, come Boccioni e Sant’Elia, che morirono giovani. Del Futurismo restarono molte promesse, tante opere, briosi reperti di una paradossale archeologia.

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