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Il libro. “Il tempio non è in vendita”, così Pound ci insegna ad amare la vera sacralità delle nostre radici

Dopo Ezra fa surf (Altaforte, 2013 e 2019), Adriano Scianca ritorna sugli scaffali poundiani con «Il tempio non è in vendita». Ezra Pound e il sacro (Passaggio al bosco, 2024), che riprende e aggiorna la prima edizione francese dello stesso testo: Ezra Pound et le sacré (Nouvelle Librairie, 2023). Lavoro tanto agile e di non lunga lettura (90 pagine) quanto ampio e profondo nei contenuti (11 capitoletti che dall’individuo Pound nato Sotto il segno di Ra ci portano fino all’invito a Salvare l’Europa), il volumetto ha per  tema, ci avverte il sottotitolo, il rapporto tra il poeta dei Cantos e il sacro, la religione, la religiosità. Come precisa l’Autore, Pound, da saggista, giornalista e autore-speaker radiofonico, si occupò di vari temi specifici, ma non dedicò mai alcun testo o discorso al tema religioso, eppure questo tema, oltre ad essere “una sorta di traccia nascosta di tutta la sua poetica” (p. 12), è presentissimo anche in tutta la sua produzione prosastica, quasi a significare che la sfera del sacro non è una realtà separata e separabile, dalla poesia come dalla politica e dalla economia, ma il fondo stesso di ogni operare umano.

Il Pound “religioso”

Ma di quale religiosità si faceva portatore Pound? Nato e cresciuto in un ambiente anglosassone protestante, un po’ quacchero e un po’ presbiteriano, il poeta, nativamente anticonformista, si scioglierà presto da ogni tipo di appartenenza chiesastica, maturando sia una visione quasi marxista delle istituzioni religiose (“Storicamente l’esistenza dell’organizzazione delle religioni è di solito servita a uno scopo ulteriore, lo sfruttamento, il controllo delle masse, ecc.”: così nei suoi Axiomata del 1921, cit. a p. 22), sia un’ostilità verso ogni fanatismo puritano e moralistico, l’odio verso il quale fu, scrive Scianca, “una vera norma di vita” (p. 64). Ma se questi rimasero princìpi saldi della sua visione intellettuale e morale, egli non rinunciò affatto ad “una propria, originalissima visione del sacro” (p. 13). Già nel 1918, nel suo singolare scritto Religio, o la guida per bambini alla conoscenza, egli elabora una serie di quesiti e di risposte sulla natura deorum, toccando il rapporto tra stati mentali e divinità, la pluralità delle forme degli dèi e la possibilità di averne esperienza o per visione o per conoscenza, ed i nomi di questi dèi sono quelli del mondo classico: da Apollo fino ai lari. Un Pound pagano, dunque? Non esattamente, poiché sarebbe una etichetta riduttiva, come sarebbe riduttivo farne un cattolico per via del fatto, ci ricorda Scianca, che tra i suoi auctores vi erano Riccardo di San Vittore, Scoto Eriugena e ovviamente Dante. Quella di Pound era “una visione più ampia”, sicuramente “trasversale a qualsiasi confessione istituzionale e ostile a ogni bigottismo” (p. 14).

La porta delle civiltà: la tradizione

Tra i cardini di tale visione, l’idea di una opposizione cosmo-storica tra due princìpi: uno, plutonico, divisivo e mortifero, l’altro, demetrico, che “contempla l’unità del mistero” (in Carta da visita, cit. a p. 15). Due forze, avverte l’Autore, che se indubbiamente portano le tracce dell’interesse poundiano verso manicheismo e catarismo, sono pur sempre forze che “viaggiano sulle gambe degli uomini, sono immanenti alle nostre azioni” (p. 18), e si presentano come concreti fenomeni storici: ad esempio, l’usura da un lato, dall’altro un’etica come quella confuciana dell’“invariabile mezzo” o “asse che non vacilla”. Quanto a Dio, per Pound è la “essenza più intima dell’universo” (ancora dagli Axiomata, cit. a p. 21), ma sostanzialmente possiamo solo accettarne l’esistenza, e in una visione soprattutto panteistica: “Tutte le costruzioni della teologia sono da Pound rifiutate come fallimentari” (p. 23). La religiosità poundiana volge lo sguardo, più che alle discussioni metafisiche, alle tradizioni delle civiltà, facendo di Eleusi il cuore e il polmone di una sacralità del grano e del lavoro umano che dal mondo greco-romano si trasmette fino al cattolicesimo mediterraneo, capace, di contro alla risemitizzazione del cristianesimo operata da Lutero e Calvino, di conservare “il mistero sacro del grano” (dall’articolo del 1941 Il grano, cit. a p. 29), di far permanere nella ritualità popolare le forme pagane entro feste e liturgie cristiane, e persino di affermare un principio pratico di tolleranza dell’eclettismo religioso e dell’anticonformismo comportamentale, che sarà uno dei motivi dell’inesauribile amore di Pound per l’Italia, anche se (osservazione di chi scrive, e non dell’Autore) forse egli non si accorse che molta della “apertura” che egli riscontrava, anche sulla sua (diremmo oggi) “famiglia allargata”, era probabilmente più dovuta al suo status di straniero che a una vera e propria attitudine di un paese ancora molto clericale, prima e immediatamente dopo della seconda guerra mondiale, quale era il nostro. 

Oltre il bigottismo

Il libro non manca di dar conto, pur se brevemente, delle simpatie ed antipatie poundiane verso i mondi religiosi extraeuropei, dalla Cina al Giappone, dall’India ai paesi islamici, nonché dell’interesse per l’antico Egitto, in cui ebbe notevole parte il genero Boris de Rachewiltz, e che trovò persino forma nella interpretatio che diede del proprio nome: Ezra, non più come nome del profeta biblico, ma come nome che “aveva un’origine egiziana e derivava da Ez, «nascente», più Ra, titolo onorifico della divinità del sole” (p. 11). Ma oltrepassando le questioni puramente religiose, pur partendo da esse, nel saggio si ha modo anche di dare uno sguardo più vario alle idee di Pound. Così, se viene ripetutamente segnalata l’avversione poundiana verso “il bigottismo e l’intolleranza” (p. 63), se ne segnala senz’altro anche la distanza da una destra borghese idolatra di Law & Order (“Non appartiene a Ezra la libido tutta borghese per la punizione, per la vendetta, per lo stato di polizia e il simulacro dell’ordine imposto con la forza” (p. 67); il “sentito garantismo, disprezzo per le sbarre e le prigioni, fossero anche per gli animali” (p. 68): insomma quello che, ricorrendo a una espressione usata (anche per Pound) anni fa da Luciano Lanna per un suo libro, potremmo chiamare il “fascismo libertario” del poeta, che aveva sperimentato gabbia e manicomio punitivi grazie ai suoi connazionali.

Unico sguardo verso il centro di gravità

Inoltre, di Pound Scianca evidenzia l’adesione al principio della accettazione della pluralità delle culture, che non esclude “la visione d’insieme che abbracci popoli, lingue e culture in un unico sguardo”, ma quest’ultimo “pensato in una composizione organica, armonica, che tiene lontano la confusione priva di centro” (p. 80). Da qui anche l’elogio del “cosmopolitismo sano” (p. 81) di cui fu portatore Pound, cosmopolitismo convivente con la sua natura di “vero pensatore no-global” (p. 89) ante litteram, come si evince da una sua intervista del 1962 in cui chiamava alla lotta per la preservazione di ciò che aveva “un carattere locale e particolare” (cit. a p. 89), alla lotta “per la conservazione dell’individuo” (ibid.) e contro “la soppressione della storia” (ibid.). In questa convivenza dei due elementi si situava peraltro la sua posizione sull’immigrazione, in cui, pensando anche alla propria posizione in Italia, evocava uno “Jus italicum” (articolo del 1941 con questo titolo, cit. a p. 82), in cui si riconoscesse il contributo positivo che alla nazione ospite poteva dare l’allogeno, meritevole di “un certo diritto d’asilo, quando la patria sua è in tal disordine che non può più abitarla ed ha una certa utilità quando può condividere o aumentare la vita industriale o intellettuale del paese dove abita” (stesso articolo, cit. a p. 83), ma senza che ciò dovesse necessariamente giustificare, chiarisce Scianca, un diritto di cittadinanza ignorante “le appartenenze profonde, che certo non si cambiano per via burocratica” (pp. 83-84).

Canto per l’Europa

Il libro si chiude con il sentimento dell’Europa che ebbe Pound: sentimento che, senza mai cessare di richiamare le sue radici americane, lo portò a vivere e a morire nel nostro continente. Pound che, nel canto 76 dei Pisani, si era dichiarato, scriptor “dalle rovine d’Europa”, nella già citata intervista del 1962, dichiarava di scrivere “per resistere all’idea che l’Europa e la civiltà stiano andando a scatafascio” (cit. a p. 90). Di questa resistenza, attraverso Pound, Scianca – invitando anche a coniugare sentimento nazionale e sentimento europeista (“Ma che per Pound i singoli destini nazionali andassero pensati in un’ottica più ampia , relativa all’intera civiltà europea, sembra fuor di dubbio”: pp. 87-88) –  ha cercato di farsi portavoce ai nostri giorni, e questo suo libro invita in fondo quel mondo, italiano e non, che considera Pound uno dei propri numi e lumi intellettuali, a rivitalizzarne le idee, che potremmo riassumere così: un’Europa consapevole del bisogno del sacro, ma lontana dalla nuova mitologia “giudaico-cristiana” d’origine protestante americana, capace cioè di riscoprire il meglio delle radici sia pagane che cristiane; un’Europa in cui il politico non sia subordinato all’economico; un’Europa in cui la rinascita dell’idea di Stato (le poundiane città di Faasa e “di Dioce” distrutte e ricostruite) non sia scambiata per la costruzione di uno Stato di polizia.

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