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L’ultimo libro di Floreana Nativo: perdersi per ritrovarsi

La scrittrice Floreana Nativo presenterà il suo ultimo libro “Il filo del labirinto” (Panda Edizioni) oggi, mercoledì 4, alle 18 alla Biblioteca Guarneriana di San Daniele in dialogo con Angelo Floramo e Giuseppe Fiorica. La copertina è opera dell'artista Giulio de Vita.

Siete pronti a perdere il filo? A oltre passare la perigliosa porta? Se è così questo è il libro che fa per voi. Ancora una volta Floreana Nativo ci sorprende per l’acume con il quale esamina questa materia complessa (labirintica, non c’è che dire!), utilizzando le grammatiche di una dottrina che va dall’antropologia alla letteratura, dalla storia dell’arte alle sciarade.

Archetipo, simbolo originario della conoscenza e dell’esperienza di sé, il labirinto esprime da sempre stretta analogia tra la parola e la conoscenza. Nei graffiti preistorici attraverso stilizzazioni labirintiche spiraliformi venivano rappresentati i capezzoli della dea madre, l’utero primigenio dal quale tutto deriva. Nei manoscritti medici di età medievale simile labirinto viene miniato e circoscritto nel ventre della gravida in attesa di partorire: il feto cresce aprendosi la strada nel primo percorso iniziatico della sua vita: la nascita appunto. L’idea archetipica della donna è per l’uomo antico sempre spiraliforme, labirintica. Donna, Terra, Madre. Nel suo fecondo labirinto vaga il seme dell’uomo che germina sé stesso. Una significativa anabasi nel mondo degli inferi, nel concetto antropologico di interno-inferno, mondo ctonio sul quale regna Proserpina, dea lunare e proserpente, madre di Cerere, Signora delle messi. Un concetto sul quale insisteremo ancora, più avanti. E la donna è madre, come lo è la lingua: la lingua del neonato che, ancora infante (in fans, non capace di parlare) sugge dal capezzolo il latte e le parole che ancora non sa pronunciare. Le sue labbra si dischiudono sul labirinto: ancora una volta un percorso iniziatico che lo porterà alla trasformazione sublime, alla metamorfosi della rinascita.

Apprendere la parola significa infatti rinascere uomo. Il nesso tra parola e labirinto è evidente anche nel caso della simbolizzazione dell’orecchio, luogo o in cui il Verbum vaga nel dedalo dell’inconsapevolezza prima di raggiungere l’ultimo significato: la sede dell’intelletto. Volute non dissimili si attorcigliano dunque tanto nel grembo fertile della madre quanto nella mente capace di pensiero. Concepire è infatti facoltà di entrambi: dalla mente le idee, dal grembo l’uomo. Risolvere l’enigma è dunque una sorta di regressus ad uterum, come dimostra la tragedia greca dell’Edipo Re. Se è vero infatti che ogni labirinto è successione infinita di porte, Tebe è ipostatizzazione di tale concetto: essa è la città universale, così come lo diventeranno in epoca medievale Gerusalemme o Babilonia, assieme alle loro corrispettive gemelle celesti e infernali: suggestiva l’idea stessa del doppio, della ripetizione, dell’immagine speculare che è uno dei principali fondamenti dell’architettura di un labirinto.

È proprio verso la città dalle cento porte che si dirige Edipo, il risolutore di enigmi, il viandante che percorre i sentieri della ricerca e della verità, precursore di numerosi suoi emuli che hanno calcato le vie di tanta novellistica medievale, di cui la Nativo è sapiente conoscitrice e ce ne offre curiosa interpretazione. La luce della Verità acceca chi ne persegue i fini. Il filo logico che Edipo rincorre è pari a quello di Arianna, il cui nome etimologicamente significa io sono la luce; è un filo anche quello intessuto dalle mani delle Parche, o la treccia che la dama getta dal balcone della torre affinché il cavaliere-amante ne espugni il castello d’amore labirinto anch’esso e luogo simbolico carico di suggestioni; ma filo è anche la filastrocca (stessa etimologia) che incanta, che apre le porte dei luoghi segreti e indica la via, ora formula magica, ora tutela apotropaica del saggio viandante, ora canto d’amore del cavaliere errante cui il destino indicherà al fine la via: fata viam invenient.

I mitografi narrano che Dedalo, progettista e costruttore del Labirinto di Cnosso, sia stato, oltre che architetto, un inventore, un fabbro, un mastro di forme, di stampi e conii: la moneta si conia, così come pure la parola. Ogni demiurgo è infatti un buon falsario e ogni falsario un perfetto alchimista. Egli nomina le cose e gli oggetti che crea nella sua bottega imitando l’essenza dell’idea universale ed eterna che si trova altrove. Coniatore di falsi e di parole, creatore di microcosmi e di copie alterate del vero, costruttore di labirinti quindi, di mondi paralleli, sub creatore di universi, tale è il Demiurgo, il costruttore di ogni labirinto, ben diverso da Dio, il gran geométra che non finge, ma crea. D’altronde già Dante, nella Commedia, mette in chiara evidenza il rapporto che intercorre tra labirinto, inferno, alchimia e parola.

Nel labirinto, lo abbiamo visto, si compie la grande metamorfosi, la trasformazione estrema. La rivelazione suprema cui l’anima mistica aspira per fondersi in essa fino a divenirne speculum capace di riflettere e dunque di capire, nel senso etimologico di comprendere. E di fronte ad essa non ci sono parole capaci di offrirne una spiegazione. Resta solo il silenzio, come quello dell’infante le cui labbra si protendono senza parola sulla verità: perché transumanar per verba non si poria. Per quanto a fine lettura possiamo proprio affermare che questa volta l’Autrice è riuscita nell’intento. Portandoci in salvo oltre il disvelamento del mistero.

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