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Se i dati diventano merce di scambio, che ne sarà del diritti connessi alla privacy?

L’indagine è un primo, ma fondamentale, passo. In attesa della sentenza definitiva sull’accusa di evasione fiscale nei confronti di Meta (di 887 milioni di euro, in Italia, dal 2015 al 2021), questa vicenda apre uno squarcio relativamente ai dati degli utenti utilizzati come merce di scambio per l’accesso a servizi digitali (a titolo gratuito, come nel caso di Facebook e le altre piattaforme della holding di Mark Zuckerberg). Perché se venisse confermata l’equiparazione dei dati personali a una merce (quindi soggetta a una normativa previste dalla legislazione fiscale italiana), che ne sarebbe del diritto alla privacy?

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Non è una questione da poco e, soprattutto, un’eventuale sentenza di condanna nei confronti di Meta potrebbe provocare una lunga serie di iniziative – anche con valore retroattivo – analoghe nei confronti di tutti coloro che offrono servizi digitali. Perché secondo l’Unione Europea, non è contemplato l’automatismo della cessione dei dati personali basandosi su un controvalore monetario. Dunque, rispetto a quanto deciso dalla Procura di Milano nell’ambito dell’inchiesta nei confronti dell’azienda di Menlo Park, si viaggia su un binario tematicamente parallelo, ma con degli effetti fiscali frutto di una quantificazione economica (l’IVA rispetto all’imponibile).

Dati come merce di scambio, che ne sarà della privacy?

Dunque, nel contratto sinallagmatico individuato dalla Procura di Milano, c’è il sillogismo “dati come merce di scambio”. Dunque, Meta offre “gratuitamente” l’accesso alle sue piattaforme e servizi in cambio di dei dati degli utenti. Dunque, in cambio di un altro beneficio economico. La giurisprudenza sulla protezione dei dati personali, invece, non contempla l’ipotesi dell’equiparazione dei dati personali – in questo caso di quelli degli utenti iscritti alle piattaforme social – come beni giudici ed economici (come i “soldi”, per fare un esempio tangibile). Esattamente come spiegato da Guido Scorza (componente del Collegio dell’Autorità Garante per la Protezione dei dati personali) nel corso della puntata del format “Ciao Internet” di Matteo Flora:

«I dati personali non dovrebbero essere considerati come un qualsiasi altro bene giuridico ed economico e non dovrebbero essere scambiati sui mercati globali in cambio di altre utilità. Perché quando questo avviene in presenza di talune condizioni, il rischio è che il diritto alla privacy possa perdere quella condizione di universalità, cioè il suo essere eguale per tutti, perché è certo che se il diritto alla privacy diventasse uguale a tutti gli altri bene giudico-economici, uguale al pane, uguale all’acqua, uguale al sale, uguale allo zucchero, chi ha minori risorse economiche è facile che vi rinunci in cambio di altre utilità. Però l’universalità è una caratteristica fondamentale di tutti i diritti fondamentali, tra i quali esiste sicuramente il diritto alla privacy».

Questo concetto, come ribadito da Scorza, rappresenta la distanza tra l’essere e il dover essere. Tra quanto deciso dalla Procura di Milano e quanto, invece, previsto dall’ampio ecosistema della Protezione dei Dati Personali in Italia e in Europa. Ma c’è un aspetto che è molto importante: il diritto alla privacy e i dati personali sono due cose differenti:

«I dati personali sono tessere del mosaico dell’identità personale, ma stanno al diritto alla privacy come i diritti su una singola opera dell’ingegno stanno al diritto d’autore. Una cosa è il diritto e una cosa sono i dati personali». 

Da qui ne deriva una considerazione: in quali condizioni i dati personali possono stare sul mercato e in quali non possono stare perché sconfinerebbero nel diritto alla privacy. Un equilibrio instabile, attualmente, che prevede una distinzione che non è poi così marcata.

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