Sindrome di Forbes: c’è ancora qualcuno fiero di stare in queste classifiche effimere?
Prendo spunto dall’articolo di Selvaggia Lucarelli pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 13 novembre scorso, che smaschera il “modello Forbes”, declinato sul mondo della ristorazione. L’articolo rivela come la celebre guida ai 100 ristoranti&co innovativi 2025 sia, di fatto, un sistema pay-to-play, dove il prestigio viene comprato a suon di migliaia di euro.
Non è un caso isolato. Anche io, ogni anno, ricevo puntualmente inviti da parte di altre autorevoli testate giornalistiche a partecipare a contest che promettono gloria e visibilità, come “Studio di Consulenza Direzionale dell’Anno”. La proposta inizia con complimenti per essere stati individuati come “best performer del settore” grazie a ricerche condotte da misteriosi esperti. Solo dopo un lungo panegirico arriva la vera richiesta: per essere inseriti nella classifica serve un “contributo” di qualche migliaio di euro.
Queste non sono altro che marchette, con l’aggravante di una pubblicità ingannevole. È esilarante osservare come, nonostante la consapevolezza del sistema, tanti professionisti non resistano alla tentazione di vantarsi sui social di apparire in classifiche patinate. Le stesse persone che, tra una tartina e un prosecco ai convegni, sghignazzano sapendo benissimo che quei riconoscimenti hanno più a che fare con il portafoglio che con il merito.
Il meccanismo è sempre lo stesso: si offrono titoli altisonanti – “Manager dell’Anno”, “Under 30 che cambieranno il mondo”, “Donne più influenti” – per dare credibilità a classifiche costruite su misura. A far da specchietto per le allodole ci sono figure che non hanno bisogno di pagare (ma che vengono pagati), come sportivi di fama o brand iconici, accanto a personaggi in cerca di visibilità, figli di papà, fuffa-guru, manager in declino o marchi in crisi che sperano di rilanciarsi.
In questo contesto, le professioni ordinistiche – come commercialisti, avvocati, e notai – portano una responsabilità ancora più grande. Questi ordini professionali, che dovrebbero garantire l’integrità e l’etica dei loro iscritti, hanno anche il compito di vigilare su comportamenti che potrebbero ledere la reputazione collettiva. Apparire in classifiche a pagamento, vantare premi “acquistati” o promuovere una visibilità ingannevole contraddice il codice deontologico che ogni professionista dovrebbe rispettare.
L’Ordine dovrebbe attivarsi con maggiore incisività, introducendo controlli più stringenti per evitare che i propri iscritti aderiscano a queste pratiche discutibili. La trasparenza dovrebbe essere il fulcro di ogni attività: chiunque scelga di partecipare a iniziative del genere dovrebbe essere obbligato a dichiarare pubblicamente l’eventuale esborso economico. Inoltre, sanzioni deontologiche dovrebbero essere previste per chi viola il principio di lealtà e correttezza nei confronti della professione. Il danno non è solo per i singoli professionisti coinvolti, ma si riflette su tutta la categoria. Quando un avvocato o un commercialista appare in una classifica discutibile, il pubblico tende a generalizzare, minando la fiducia nei confronti dell’intero settore. È qui che entrano in gioco gli ordini professionali: oltre a vigilare, hanno il compito di educare i loro iscritti, promuovendo una cultura dell’eccellenza basata sui fatti e non sull’apparenza.
A tal fine, si potrebbero introdurre strumenti come un registro pubblico dei premi e dei riconoscimenti ricevuti, corredati di informazioni chiare sulle modalità di assegnazione. Questo non solo scoraggerebbe le pratiche opache, ma restituirebbe dignità a chi ottiene riconoscimenti autentici.
Dopo aver letto tutto ciò, viene da chiedersi: c’è ancora qualcuno che condividerà con orgoglio la propria inclusione in una classifica di queste autorevoli testate? Forse, più che cercare l’approvazione di queste classifiche, sarebbe il caso di riflettere su cosa definisce davvero il successo. Non è il nome su una rivista patinata, ma la qualità del lavoro, l’integrità e l’impatto reale che si lascia nel proprio settore. Perché la credibilità non si compra: si costruisce.
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