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“Gli imprenditori italiani si arricchiscono ma non investono mentre i salari dei lavoratori crollano”. I dati in uno studio de La Sapienza

È un quadro devastante quello che emerge dallo studio dedicato alla dinamica dei redditi nell’industria italiana, realizzato da un gruppo di docenti dell’Università La Sapienza di Roma, guidati da Riccardo Gallo. Ci sono gli elementi per capire molto delle difficoltà e degli squilibri non solo della nostra economia, ma anche della nostra società. L’apatia (provvidenziale l’etimologia: assenza di passione) della nostra industria, la cui produzione affonda da quasi due anni. Il progressivo e inesorabile impoverimento anche di chi ha un lavoro.

Negli ultimi anni “il travaso di ricchezza dai lavoratori al capitale è stato pazzesco”, osserva Gallo. Questa considerazione è motivata dall’analisi dei dati sul fatturato delle aziende italiane di medie e grandi dimensioni che, periodicamente, vengono diffusi dal centro studi di Mediobanca.

Nel 2023 il giro d’affari di queste imprese risultava superiore del 34% a quello del 2019, l’ultimo anno prima dello choc pandemico. Simile la crescita del valore aggiunto, che possiamo definire come la ricchezza creata dalle imprese realizzando prodotti con l’utilizzo degli elementi base e che risultava superiore del 33%. Una crescita dovuta in parte dall’inflazione ma non in maniera determinante. In generale, inoltre, le aziende italiane del campione mostravano un’ottima salute patrimoniale e finanziaria.

Ma dove è andata a finire questa ricchezza prodotta? Qui stanno i dati più sorprendenti. Mentre tra il 2020 e il 2023 il peso del fisco è rimasto sostanzialmente identico, la quota confluita nei redditi da lavoro è scesa di ben il 12%. Viceversa la remunerazione degli azionisti è aumentata del 14%. “I soci, spiega poi Gallo, hanno prelevato l’80% degli utili come dividendi e hanno lasciato il 20% come autofinanziamento di nuovi investimenti”.

Questi che Gallo definisce “avari investimenti”, per di più, sono andati per il 40% in materiali per le fabbriche e, per un più cospicuo 60%, per acquisire partecipazioni finanziarie. In sostanza nell’ammodernamento degli impianti industriali si è speso pochissimo, nonostante la fase di prosperità, tanto che l’età media delle immobilizzazioni (i macchinari, per intenderci) è rimasta stabile a 19 anni, “segno che sono stati fatti investimenti di puro mantenimento“.

Come noto, un tasto su cui imprenditori (ed opinionisti al seguito) battono incessantemente è che gli aumenti salariali possono arrivare solo se si accresce la produttività del lavoro. Questo non significa che i lavoratori devono lavorare di più (le ore lavorate in Italia sono già tra le più alte d’Europa e le ore di assenza per malattia tra le più basse del mondo occidentale), ma che dovrebbero avere strumenti migliori e/o processi organizzativi più efficienti per le loro mansioni.

Si pensi ad un esempio semplice ed intuitivo: la terra che, nello stesso intervallo di tempo, un contadino può lavorare con un aratro spinto a mano oppure con uno agganciato ad un trattore. Ma, naturalmente, se gli industriali investono poco, la dotazione di cui dispongono i loro dipendenti non migliora e la loro produttività ristagna. Gli investimenti si possono finanziare anche attraverso i prestiti, non solo usando a tal fine una parte più o meno cospicua dei guadagni, ma anche da questo lato i riscontri sono poco incoraggianti.

Va dato atto a Il Sole 24 Ore di aver ospitato per primo il contributo di Gallo, che sul giornale degli industriali ha descritto i risultati emersi. E poi allo storico Sergio Bologna che, dalle colonne de Il Manifesto, ha giustamente sollecitato una maggior attenzione al rapporto anche, e soprattutto, da parte dei rappresentanti dei lavoratori, al fine di dare maggiore consistenza alle loro rivendicazioni.

Tra le ragioni che vengono individuate nello studio per il crescente squilibrio nella distribuzione della ricchezza prodotta, c’è infatti anche il mancato rinnovo di molti contratti collettivi di lavoro. Tra i quasi 6 milioni di dipendenti di aziende aderenti a Confindustria, il 53% ha un ccnl scaduto negli ultimi 12 mesi, il 10% ne ha uno scaduto da oltre due anni e il 13% ne ha uno che scadrà nei prossimi mesi.

Gran parte dei dipendenti lavora pertanto con contratti scaduti che, in concreto, significa una diminuzione del salario, visto che i recuperi del periodo di latenza una volta che il ccnl viene finalmente rinnovato non coprono mai integralmente il potere d’acquisto perso nel frattempo. La caduta della quota di ricchezza appannaggio dei lavoratori non è stata prerogativa solo italiana, ma nel nostro paese è risultata decisamente più marcata rispetto a quanto accaduto in Germania mentre in Francia si registra addirittura un aumento.

Nello studio si analizza anche questa “disaffezione imprenditoriale”. Leggiamo: “In linea di principio i soci dovrebbero considerare orgogliosamente la propria società come l’ambito più conveniente sul mercato e quindi dovrebbero lasciare l’intero utile netto di esercizio nell’impresa per farlo reinvestire”. E invece, come abbiamo visto, in azienda rimangono appena due euro ogni dieci. L’indice di indebitamento, per di più, è rimasto stabile e contenuto.

Le società non hanno aumentato l’indebitamento (e quindi gli investimenti finanziati con i prestiti), “non già per scarsità del credito come troppo spesso si dice con superficialità , quanto piuttosto per disaffezione al rischio di impresa. Una disaffezione basata su incertezza, perdita di competitività del paese, eccetera”. Un cane che si morde la coda insomma, perché meno si investe meno la competitività cresce (a meno di non spingere solo sulla compressione dei salari) e meno l’ambiente invoglia investimenti.

L'articolo “Gli imprenditori italiani si arricchiscono ma non investono mentre i salari dei lavoratori crollano”. I dati in uno studio de La Sapienza proviene da Il Fatto Quotidiano.

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