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Alzheimer, la cura possibile

La mattina in cui la mamma si dimentica il nostro nome, o perde la strada di casa, il momento in cui nostro padre non ci riconosce più. I giorni che sono spartitraffico tra la vita di prima, normale, e quella del dopo: l’infernoo qualcosa di molto simile. Quando l’Alzheimer entra in casa e annienta tutti. In Italia quasi 700 mila persone ne sono già colpite (il 20 per cento degli over 50) e i numeri triplicheranno nei prossimi 25 anni. La malattia è incurabile.

C’è però una luce, in fondo al tunnel: a metà novembre è stato approvato da Ema, l’Agenzia europea per i medicinali, un anticorpo monoclonale chiamato lecanemab (nome commerciale Leqembi), al momento il primo e unico farmaco che riesce a rallentare il decorso di questa forma di demenza. Una breccia nel suo muro impenetrabile. «Si tratta di una svolta, in una sfida che fino a poco tempo fa sembrava insormontabile» afferma a Panorama Massimo Filippi, direttore dell’Unità di Neurologia, del servizio di Neurofisiologia e dell’Unità di Neuroriabilitazione dell’Irccs Ospedale San Raffaele, primi e per ora unici in Italia a somministrarlo. «Siamo passati dal non avere nulla per arginare una patologia gravissima e molto frequente al poter disporre di un farmaco che riesce a rallentare in media di circa il 30 per cento il suo avanzare: è un passo da gigante, pur con tutte le limitazioni del caso».

Le limitazioni di cui parla Filippi sono legate al fatto che l’anticorpo monoclonale Leqembi (si somministra per via endovenosa due volte al mese) non è indenne da controindicazioni, e può essere assunto solo da una particolare platea di malati. «È fondamentale veicolare il giusto messaggio» prosegue il primario. «Lecanemab è indicato per pazienti nella fase iniziale della malattia - per quelli in fase avanzata, infatti, non è utile clinicamente-, non portatori di una particolare variante genetica che favorisce i micro-sanguinamenti e gli edemi e che non prendano anticoagulanti. Il farmaco, infatti, agisce legandosi alla proteina beta-amiloide, ossia uno dei fattori tossici che causano la malattia, rimuovendola dal cervello attraverso il torrente ematico. Per questo motivo potrebbe creare danni alle pareti dei vasi sanguigni e provocare eventi emorragici». Inoltre, la terapia è talmente costosa (circa 25.500 dollari per un anno di cura) da rivelarsi al momento insostenibile per i servizi sanitari.

A questo punto viene cinicamente da chiedersi: se dobbiamo trattare i pazienti con farmaci costosissimi e con effetti collaterali importanti, abbiamo la certezza che la cura faccia davvero la differenza? I malati, i loro parenti, si accorgeranno del miglioramento? «Su questo aspetto io sono ottimista» risponde Filippi. «Anche se per adesso non abbiamo dati su quanto durino i benefici, perché abbiamo iniziato i trattamenti da troppo poco tempo, è importante comprendere che in pazienti anziani riuscire a rallentare il decorso della malattia vuol dire regalare tempo e vita di qualità. Curare un malato 80enne e farlo stare meglio per tre o quattro anni rappresenta già un risultato notevole, per lui e la sua famiglia. Se la terapia viene iniziata precocemente, quando l’Alzheimer non ha ancora creato danni importanti, riteniamo possa esserci una chiara percezione di una patologia che corre meno veloce». In definitiva: con l’assunzione del nuovo farmaco non possiamo aspettarci che la malattia regredisca, o migliori, ma solo che rallenti: se nostro nonno non sa più come lavarsi i denti, o come si accende la televisione, non reimparerà a farlo. Magari, però, non dimenticherà il nostro nome.

Nel frattempo, nel reparto di Filippi alcuni pazienti sono già in cura dall’estate scorsa (cioè da prima del semaforo verde di Ema, perché i farmaci già autorizzati dalla Fda americana sono utilizzabili all’interno della nostra legislazione, anche se non rimborsati) e altri sono già pronti per iniziare la terapia. Attualmente, tutte le spese sono a loro carico, e queste includono non solo il costo del farmaco, ma anche gli esami - come le risonanze magnetiche - necessari per monitorare eventuali complicazioni. «I pazienti finora non hanno sperimentato effetti collaterali» conclude Filippi. «Non hanno avuto alcun timore a iniziare la cura, anzi sono molto sollevati. Essendo in una fase precoce, hanno ben compreso che una patologia fino a ieri incurabile oggi invece può essere rallentata: anche psicologicamente c’è un effetto altamente positivo».

Le buone notizie peraltro non sono finite. Nel resto del mondo si sta già impiegando anche un altro anticorpo monoclonale: il donanemab (nome commerciale Kisunla), prodotto dall’americana Eli Lilly, che si può già acquistare in Stati Uniti, Cina, Gran Bretagna, Giappone, Corea ma non in Europa perché non è ancora approvato da Ema. Il trattamento è più costoso rispetto a Leqembi (prodotto dalla giapponese Eisai in partnership con Biogen), e arriva a oltre 32 mila dollari per un anno: si somministra una volta al mese, sempre endovena. «Anche questo anticorpo monoclonale, così come il lecanemab, agisce sulla placca amiloide, cioè su quel “groviglio” di proteine che si accumulano nel cervello dei malati di Alzheimer» spiega Paolo Calabresi, primario del reparto di Neurologia di Irccs Policlinico Gemelli di Roma. «Le sperimentazioni hanno fornito dati incoraggianti, almeno statisticamente: gli studi clinici mostrano un rallentamento significativo della malattia nel gruppo che ha assunto donanemab rispetto a chi è stato trattato con placebo. Su questo risultato, però, pur mantenendoci parzialmente ottimisti, dobbiamo mostrare cautela clinica, perché anche con questo anticorpo possono verificarsi micro sanguinamenti ed edema cerebrale, che nel 6 per cento dei casi si sono rivelati gravi».

Nessuno dei due farmaci rappresenta «la pillola magica» contro l’Alzheimer, ma la scienza insegna che da una piccola breccia nel muro si può generare un effetto a cascata. «Qualora Ema approvasse questo secondo anticorpo monoclonale» continua Calabresi «occorrerà capire “in real world” se i benefici saranno rilevanti anche dal punto di vista clinico, e soprattutto in termini di qualità di vita dei pazienti. Saranno proprio loro, assieme ai familiari, a determinare o meno il successo di queste terapie». Siccome, però, il nemico va accerchiato, la ricerca non si concentra solo sulla distruzione della placca amiloide (che resta la principale indiziata dei danni al cervello, ma l’ipotesi è ancora, in parte, controversa: è la causa o piuttosto la conseguenza della malattia?). «Sono in corso trial clinici che hanno come bersaglio la proteina tau, responsabile di accumuli patologici nel cervello» spiega Andrea Arighi, direttore UOSD Neurologia -Malattie Neurodegenerative della Fondazione Irccs Ca’ Granda Ospedale maggiore Policlinico di Milano. «Anche in questo caso abbiamo anticorpi monoclonali in sperimentazione, mentre altri trial si stanno concentrando sulla neuroinfiammazione. Alcuni ricercatori stanno poi lavorando sul microbiota intestinale e sulla plasticità cerebrale. Abbiamo infine studi sulla stimolazione transcranica elettrica o magnetica».

Tante strade, tante ipotesi, non altrettante certezze. È invece sicuro che quasi la metà dei casi di demenza in tutto il mondo potrebbero essere prevenuti agendo su 14 fattori di rischio. Sono i dati dell’ultimo rapporto della Commissione Lancet: «L’unica arma certa che abbiamo davvero è cercare di non ammalarci» continua Calabresi. «Questi 14 comportamenti da evitare sono quindi fondamentali. Qualche anno fa erano solo nove, dall’obesità al fumo, dall’ipertensione al diabete: ora ne sono stati inseriti altri. Si è scoperto, per esempio, che la diminuzione della vista e dell’udito sono per l’anziano fattori di rischio per Alzheimer e demenze, perché portano a isolamento sociale». Occorre giocare d’anticipo, e ci si sta provando anche con l’Intelligenza artificiale. Federica Agosta, direttrice dell’Unità di ricerca Neuroimaging delle malattie neurodegenerative dell’Irccs Ospedale San Raffaele, sta cercando di «addestrare» gli algoritmi per valutare l’eventualità di sviluppare demenze. «Visto che la diagnosi precoce è al momento la nostra unica possibilità di limitare i danni» spiega «stiamo usando l’Ia per cercare di comprendere, tramite i dati che ci arrivano da risonanze magnetiche, analisi del sangue, fattori di familiarità, quante probabilità abbia un individuo di ammalarsi. Proviamo anche a prevedere, in chi è già colpito, con quanta velocità progredirà l’Alzheimer».

Tornando al Leqembi appena arrivato in Italia e al «cugino» Kisunla che si spera Ema approvi al più presto, la sfida sarà riuscire a selezionare chi potrà e dovrà averli, dal momento che potrebbe trarne benefici, e chi no in quanto ne ricaverebbe solo rischi: perché, questo è certo, li vorranno tutti. Sperando che il Servizio sanitario nazionale abbia le risorse necessarie ad acquistarli, evitando che si scateni la guerra tra chi sarà in grado di sostenere cure tanto costose e chi dovrà rinunciarvi. L’Alzheimer è nemico di tutti noi: per sconfiggerlo occorre un esercito efficiente e solidale, che non lasci indietro nessuno.

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