L’Europa è divisa e la parità di genere resta un miraggio
di Lorenzo Lazzeri
Nonostante l’Europa promuova la parità di genere come pilastro fondamentale, i dati dell’ultimo Eurobarometro mostrano una realtà complessa, con le disparità profondamente radicate sia nei luoghi di lavoro quanto nella vita familiare. Condotto nei 27 Stati Membri e pubblicato nel dicembre 2024, il sondaggio esplora le percezioni dei cittadini europei sui ruoli di genere e mette in luce una tensione, ancora irrisolta, tra i valori moderni e gli stereotipi tradizionali. L’apparente consenso sull’importanza della parità si scontra con l’inerzia culturale e la persistenza di pregiudizi che influenzano profondamente la vita quotidiana e professionale.
Dal rapporto, dove qui si riportano le sezioni SP545 e alcuni dati della FL545, emerge che il 75% degli europei riconosce come la parità di genere porti benefici a tutti, inclusi gli uomini; ciò nonostante, il 42% continua a credere che il ruolo principale di un uomo sia quello di essere il principale sostegno economico della famiglia. Mentre, il 38% vede le donne come figure preminenti nella gestione della casa e della famiglia. Una dicotomia, questa, che si radica in profonde costruzioni culturali, variabili geograficamente: Slovacchia e Bulgaria rappresentano i paesi dove queste percezioni sono più diffuse, mentre in Svezia i valori così detti tradizionali appaiono meno radicati.
Nel contesto lavorativo, il quadro è assai sconfortante, dato che più della metà degli europei percepisce che gli uomini siano trattati meglio sul lavoro e che abbiano maggiori possibilità di promozione rispetto alle donne. Solo il 52% degli intervistati ritiene che le opportunità di avanzamento siano uguali per entrambi i sessi. Inoltre, si sottolinea che il 40% del campione considera che gli uomini guadagnino di più perché svolgono mansioni più impegnative, una convinzione che raggiunge il massimo consenso in Slovacchia (73%) e il minimo in Svezia (14%). Tali percezioni perpetuano le disuguaglianze e scoraggiano molte donne dall’aspirare a ruoli di leadership.
La vita familiare rappresenta un ulteriore ambito in cui gli stereotipi sembrano predominare. Sebbene l’81% degli intervistati riconosca il valore del congedo parentale per i padri, il 51% ritiene che la vita familiare soffra quando una madre lavora a tempo pieno; evidenziando anche in questo caso disparità geografiche significative: in Finlandia solo il 16% condivide questa opinione, contro il 73% della Lituania. Tali dati evidenziano la persistenza di un’idea che associa la figura femminile al sacrificio personale e alla centralità domestica.
Commentando questi risultati con gli occhi di Pierre Bourdieu, importante figura della sociologia europea, si potrebbe dire che la “violenza simbolica” gioca un ruolo determinante nel perpetuare queste dinamiche. Gli stereotipi di genere vengono visti come costrutti culturali e strumenti di dominio, interiorizzati al punto da essere percepiti come naturali, necessari e degni di essere perseguiti. È attraverso questa lente che Bourdieu spiega la persistenza di pregiudizi che attribuiscono alle donne competenze domestiche e agli uomini qualità legate al comando e al guadagno. Le teorie di Bourdieu aiutano a comprendere che il cambiamento richiede non solo modifiche legislative, ma una trasformazione profonda “dell’habitus” collettivo che non è altro che un insieme di schemi mentali, come una “seconda natura” che guida inconsciamente il nostro comportamento e ci fa conformare a norme e valori sociali, rendendoli parte di ciò che siamo e delle scelte che facciamo.
Ecco che, in questo contesto, la questione del tempo necessario per colmare il divario di genere è centrale e dipende dalla capacità delle società di affrontare le disuguaglianze in modo sistemico e strutturale. Secondo un’interpretazione sociologica, mantenendo il ritmo attuale, potrebbe volerci ancora qualche decennio per raggiungere una parità effettiva nei salari, nell’accesso alle cariche dirigenziali e nella rappresentanza politica, una stima che potrebbe essere addirittura ottimistica se si considerano le possibili regressioni populistiche, economiche o culturali.
Il quadro tracciato dal sondaggio ci invita a riflettere: quale ruolo gioca l’educazione nel consolidare o decostruire questi stereotipi? E soprattutto, è sufficiente cambiare le leggi senza affrontare il peso delle strutture culturali che li alimentano? Per costruire un futuro equo, l’Europa deve interrogarsi sia sulle disuguaglianze visibili che su quelle, più insidiose, che operano nella sfera dell’invisibile.
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