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100 anni fa: il discorso dell'aspirante dittatore Mussolini

Dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti, Il 3 gennaio 1925 Benito Mussolini parlò alla Camera, con un intervento comunemente considerato l’inizio del regime fascista. Ma leggendo le memorie di chi in quegli anni gli era vicino, emerge un’altra verità storica.

Un secolo fa, il 3 gennaio 1925, Benito Mussolini pronunciò alla Camera il famoso discorso dal quale, secondo la vulgata corrente, viene fatta comunemente discendere l’istituzione della dittatura in Italia. Questa convenzione, diffusa nei libri di storia, e dunque presente a generazioni di italiani, è però falsa. Furono invece le cosiddette «leggi fascistissime», d’inizio novembre del 1926, a far precipitare il Paese in un regime autoritario, con lo scioglimento di tutti i partiti e le organizzazioni di opposizione, la soppressione della libertà di stampa e la decadenza dalla carica dei deputati comunisti e di quelli che, dopo l’assassinio del socialista Giacomo Matteotti, si erano arroccati nella politicamente improduttiva protesta dell’Aventino. Il discorso del 3 gennaio fu un violentissimo atto di reazione con il quale Mussolini volle chiudere la fase successiva al delitto Matteotti, che lo aveva indebolito. Assumendosene la responsabilità, il Duce forniva una manifestazione di forza politica senza precedenti, in cui definiva «sedizione» la secessione parlamentare degli «aventiniani» che con la loro azione si autoesclusero dalla legalità.

Il 3 gennaio 1925 Mussolini pronunciò parole destinate a restare negli annali di storia: «Dichiaro qui al cospetto di questa assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello e non invece una superba passione della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere. Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico, morale, ebbene a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico, morale io l’ho creato con una propaganda che va dall’intervento a oggi». «L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa. Noi, questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela daremo con l’amore, se è possibile, e con la forza, se sarà necessario. Voi state certi che nelle 48 ore successive al mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l’area». L’intervento del 3 gennaio 1925 viene comunemente definito come il «discorso della dittatura». Ma, dopo che venne pronunciato, non vi fu alcuna immediata azione per l’instaurazione del regime. Perché?

Per sciogliere il mistero bisogna ricorrere a un documento straordinario, scoperto da chi scrive: le memorie di Margherita Sarfatti, amante e consigliera politica di Mussolini, intitolate My Fault, nelle quali si spiega il mistero della frase sibillina, pronunciata dal Duce, in cui annunciava che, 48 ore dopo il suo discorso, la situazione sarebbe stata chiarita, «su tutta l’area». Scrive la Sarfatti: «Riguardo a questo discorso, c’è un rebus irrisolto che a quel tempo tormentò chiunque s’interessasse alla politica. Solo Vittorio Emanuele, re d’Italia, e Mussolini avrebbero potuto risolverlo. Oltre a loro, sono l’unica destinataria delle confidenze di Mussolini sulla questione. […] Mussolini dichiarò solennemente in Parlamento che non sarebbero passati tre giorni senza che l’Italia vedesse le misure drastiche che egli era in grado di prendere contro l’opposizione. […] Tuttavia, il 4, il 5 e il 6 [gennaio] passarono senza che succedesse nulla».

Dunque, fu un bluff, quello pronunciato dal Duce davanti alla Camera? Non esattamente, come spiega la Sarfatti. Benito aveva in mente un atto di forza, grazie al quale avrebbe definitivamente piegato gli oppositori: lo scioglimento del Parlamento, cui avrebbe fatto seguito una deliberata strategia liberticida. Soltanto che Mussolini trovò un ostacolo imprevisto, sulla sua strada: Vittorio Emanuele III. La Sarfatti era tra le pochissime depositarie del retroscena segreto che avvenne il mattino del 4 gennaio: «Quando Mussolini si presentò in udienza al re e gli sottopose il decreto di scioglimento del Parlamento perché lo firmasse, come misura necessaria e dovuta, avvenne una scena di una violenza senza precedenti. Inaspettatamente il re gli oppose un fermissimo e secco rifiuto. “Sono stato educato secondo principi liberali. Sono assolutamente democratico, per natura e convinzione. Ho giurato sulla Costituzione e i Savoia non sono mai stati spergiuri. Non firmerò mai”».

Il re aveva sostenuto Mussolini nella crisi seguita al delitto Matteotti e non volle rimuoverlo dalla carica di primo ministro. Forse il Duce sottovalutava la capacità di resistenza del re, di fronte alla prospettiva di giungere alla dittatura, in quella fase. Ricorda ancora la Sarfatti: «Mussolini insistette, pregò, si disperò, supplicò e persino minacciò. Invano. “È contro la mia coscienza. Non lo farò”», disse il sovrano. «“Se voi e i vostri uomini di partito vorrete prendervi la mia vita, fatelo; sono e soprattutto mi sento vecchio e consunto; la mia vita non è altro che un povero straccio logoro e consumato. Potete prendervela se volete. Ma ho idee e convinzioni alle quali resterò fedele fino alla fine. Rispetto la parola data, e la Costituzione appartiene ad essa. Non andrò e non desidero andare oltre i vincoli della Costituzione e violare la legge. Non firmerò, nemmeno a costo della mia vita”».

Resta il fatto incontrovertibile che la resistenza del monarca all’ascesa del regime non si ripeté, nel novembre del 1926, quando lo Statuto venne calpestato e l’Italia trasformata in uno Stato dittatoriale. Quella di Margherita Sarfatti, ebrea veneziana, è una figura di rilevanza gigantesca. Il suo legame sentimentale iniziò fin dai tempi in cui Mussolini era socialista. Lei lo seguì per vent’anni, consigliandolo e supportandolo anche finanziariamente. La Marcia su Roma del 28 ottobre 1922 fu pianificata nella villa del Soldo che Margherita possedeva a Cavallasca, sulle colline che circondano Como. Finché l’ascoltò, Mussolini, che ne fu succubo, raggiunse traguardi importanti. Poi, quando cominciò a perdere il senso della misura, Benito liquidò per le spicce la sua super-consigliera che, nel 1938, a causa delle leggi razziali fu costretta a emigrare: dapprima in Francia, e poi in Sudamerica. Non volle tuttavia darlo alle stampe, forse perché temeva che le avrebbero rinfacciato la sua prima biografia-agiografia di Mussolini, Dux, che rappresentò un boom editoriale fin dalla sua prima apparizione sul mercato internazionale, nel 1925.

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