Il libro. “Venti radiosi giorni”: il romanzo per vivere con D’Annunzio il fatidico maggio del 1915

Il romanzo storico non è un genere letterario facile per chi, da scrittore, decide di utilizzarlo inserendo storie e personaggi in periodi lontani dal proprio quotidiano. Figuriamoci per coloro che sono alla loro opera prima. Eppure Gianluca Kamal ci è riuscito molto bene con il suo Venti radiosi giorni (Ed. Il Cerchio, novembre 2024), volume di agile ed intensa lettura che riporta al maggio 1915, in particolare all’arco temporale tra il 5 e il 24 di quella primavera. Sono i giorni in cui il nostro Paese matura l’ingresso nella Grande Guerra, animati da manifestazioni di piazza che hanno il profumo incontenibile del patriottismo e della gioventù, ansiosa di mettersi alla prova in quella che si prospetta come un’avventura dai contorni drammatici eppure eroici.

Venti radiosi giorni, dunque, le cui pagine sono pervase da una tensione narrativa che dà il senso immediato, sottolinea Marco Cimmino nella prefazione, di una marea montante, è “il romanzo di una stagione solcando la quale si incontrano ragazzi imbevuti di spirito nazionalistico e sognanti la gloria per sé e per la propria Patria”. Sono proprio loro l’avanguardia, minoritaria ma in grado di trascinare le folle, che porterà all’intervento italiano nella Grande Guerra. Quei giovani vivono il maggio 1915 intensamente, ma c’è un uomo in particolare, che poi è colui che accenderà gli animi dando inizio all’escalation che porterà il Paese in trincea, per cui quelle giornate sono attraversate da “sentimenti forti, angosce e tumulti che agitano il suo spirito inquieto: è Gabriele D’Annunzio, il poeta che da dandy imbellettato si appresta a divenire artista armato, questa volta non soltanto di pomposi arabeschi letterari”, scrive Kamal.

Ed è proprio il Vate il cuore del romanzo: l’autore, infatti, lo ha scelto come protagonista e lo segue tratteggiandone psicologia e volontà e raccontandone gesta e riflessioni “in un crescendo oratorio di sensazioni sempre più violente” e potenti. I lettori, infatti, lo vedono tornare in Italia dal suo volontario esilio francese e sbarcare a Quarto, dove pronuncia un infuocato discorso per l’inaugurazione del monumento ai Mille di Garibaldi (5 maggio 1915), applaudito fragorosamente ad ogni frase.

Sono inoltre con lui nei dialoghi con i suoi amici e nelle riflessioni che animano le sue notti, tra amori, malinconie improvvise e ondate di vitalismo eroico. Ed anche nella percezione che la gente, soprattutto i giovani, ha del suo potere di spingere alla sommossa e alla rivolta, gettando benzina sul fuoco degli animi già accesi di quanti vogliono entrare in guerra, sempre più numerosi anche grazie alla sua presenza e alle sue inequivocabili e guerresche parole, la cui eco si diffonde con sempre maggiore forza. Egli, dunque, interpreta ed esprime al meglio le pulsioni, spesso irrazionali ma ardenti e inarrestabili, di una larga fetta degli italiani.

E ancora, lo accompagnano a Roma e lo ascoltano pronunciare il celebre discorso del 17 maggio 1915 al Campidoglio, con cui accende la miccia dei tumulti interventisti che eliminano ogni possibilità politica e diplomatica di evitare l’ormai certo ingresso dell’Italia in quella che a buon diritto alcuni storici chiamano la Quarta guerra di Indipendenza. Sono con lui e leggono i suoi pensieri e i suoi timori, la sua volontà e la convinzione dell’ineluttabilità di un destino guerresco ed eroico di cui lui e l’Italia dovranno essere necessaria parte. Lo vedono, ancora, assistere alla seduta del Parlamento del 20 maggio in cui si approva l’intervento e arringare ancora una volta la folla in attesa all’esterno del palazzo. E lo vedono infine, nella notte del 23 maggio, unirsi ad un gruppo di giovani in attesa che il loro fato si compia.

“Guardali. Ascoltali. Acclamano me come Capo per averli fatti sentire tutti, per venti giorni, artefici e creatori di un destino che è il loro come il mio”, dice al suo amico Tom e a tutti noi, dalle pagine di Kamal, il Vate. Ed aggiunge, come in un monito che ancora oggi può e deve farci da sprone: “Noi non possiamo fermarci. Noi abbiamo un avvenire che attende di essere costruito. E questo spetta soltanto a noi”.

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