Il tempo del Futurismo e non delle polemiche. La genialità di una mostra “scomunicata” dalla sinistra

Riceviamo e pubblichiamo

Sostiene, non…Pereira, ma il curatore (e con lui qualche critico non malevolo) che sarebbe piaciuta ai futuristi la polemica, spesso violenta, che ha preceduto l’inaugurazione di questa mostra allestita alla Galleria Nazionale di Arte Moderna (ora anche Contemporanea) di Roma. Mi permetto di dissentire. Marinetti amava lo scontro, ma delle idee, la contrapposizione di concezioni diverse dell’arte, della società, di AnschauungenderWelt (“mondi di visione”). Non i gratuiti attacchi, ancor prima che l’esposizione aprisse i battenti al pubblico, dettati da un furore ideologico che non si potrebbe definire altrimenti che “fascista”. Per una sorta di eterogenesi dei fini, sempre in agguato quando la mente è offuscata dal pregiudizio, l’accusa rivolta a tutti coloro che hanno contribuito a realizzare “Il tempo del Futurismo”, quella cioè di aver voluto celebrare appunto una apologia del fascismo, si ritorce contro gli accusatori stessi.

“Il tempo del Futurismo”: rigore e sapienza di una mostra

Ci vuole una buona dose di disonestà intellettuale infatti per non riconoscere con quanta sapienza, rigore, intelligenza critica è stato ricostruito alla Gnam di Roma il percorso del Movimento che, insieme con l’Espressionismo, caratterizza il secolo “più lungo” della storia (copyright Sanguineti, di gran lunga più aderente alla realtà della definizione di Hobsbawn, acriticamente accolta dai più, di “secolo breve”): quello nel quale tutto è accaduto, nel bene (le grandi scoperte, soprattutto nel campo della fisica) e nel male (le conseguenze terrificanti di quelle stesse scoperte: Hiroshima e Nagasaki). La quantità smisurata di accuse costituisce un unicum, credo, nella storia delle grandi esposizioni internazionali. Scomposte, assolutamente pretestuose, prive di alcun fondamento a tutti i protagonisti dell’avventura: dal Ministero della Cultura che l’ha fortemente sostenuta, alla Galleria che l’ha ospitata, mettendo a disposizione più di tremila metri quadrati di spazio; al curatore, oggetto di un vero e proprio assalto all’arma bianca…, denigrato, diffamato addirittura, nel tentativo, non riuscito, di minare alla base la concezione di fondo della sua realizzazione. Che dopo quella, insuperata e insuperabile, per una serie di ragioni, del 1988 a Palazzo Grassi, gestione Giovanni Agnelli (autentico gigante a fronte dei successori…), quando la Fiat era non soltanto la più grande industria del paese, ma riteneva suo imprescindibile dovere contribuire significativamente alla politica culturale nazionale (anche per gratitudine…, data la quantità di sovvenzioni pubbliche ricevute), costituisce una pietra miliare pure come modello espositivo.

L’atteggiamento sprezzante della sinistra

Il problema, un vero problema per l’intero paese, è che certi intellettuali di sinistra, di questa sinistra, che ha perduto completamente il rapporto con la società che dovrebbe rappresentare, abituati per decenni a essere considerati, e considerarsi, depositari unici, quasi per investitura divina, della “Cultura”, non riescono ad accettare l’idea che anche la destra, uscita vincitrice dalle urne, possa operare, e con successo, nel “loro” campo. E’ la ferita che brucia di più, più della perdita del potere politico. Da qui un delirio di attacchi, fondati su dati falsi (volutamente falsificati), cominciati mesi prima dell’inaugurazione e culminati, una volta che, malgrado tutto, malgrado la loro offensiva, quella… maledetta impresa è riuscita, in un atteggiamento sprezzante, riassunto nell’affermazione, da parte di un docente “politicamente frustrato” (così lo definisce in un’intervistail curatore Simongini), che lui la mostra non l’avrebbe vista e che avrebbe sconsigliato ai suoi studenti di andare a vederla.

Comportamento che, trattandosi di un insegnante, non solo è deontologicamente inaccettabile, ma costituisce un vero e proprio autogol. Ricorda un’analoga sortita di un autorevole critico che, all’uscita del capolavoro di D’Arrigo, Horcynus Orca, scrisse, su un altrettanto autorevole settimanale, che lui il libro non l’aveva letto, ma non gli piaceva… Quella rivista, peraltro, nei quindici anni precedenti la pubblicazione del romanzo (tanti servirono allo scrittore siciliano per la correzione delle bozze…) ne aveva sempre preannunciato l’uscita come un evento di portata storica, salvo poi, per beghe editoriali, prenderne le distanze in modo così goffo. Il tono è lo stesso, pieno di boria sprezzante, di intolleranza, di faziosità.

Era accaduto già con il ministro Giuli il quale, finché la destra stava al suo posto, vale a dire nel… ghetto, veniva invitato nei vari talk show diretti dai custodi dell’ortodossia scarlatta e dalle vestali del radical chic e apprezzato per la cultura, il garbo, la moderazione. Non appena ha assunto un ruolo istituzionale, con la Presidenza del Maxxi, nel quale ha mostrato insospettate doti manageriali, sono cominciate le riserve, i mugugni. Quando poi ha assunto la responsabilità del Ministero della Cultura sostituendo un pur meritevole Sangiuliano, colpevole soltanto di essersi innamorato della persona sbagliata, allora sono fioccate le denigrazioni, le irrisioni. Il culmine però si è toccato con Simongini.

Il “terrore” che il progetto potesse riuscire

La virulenza dell’attacco preventivo nascondeva il timore, anzi il terrore, che l’ambizioso progetto potesse riuscire. La dichiarazione programmatica di voler fare un’esposizione non per addetti ai lavori, ma per un pubblico più vasto, una mostra per così dire“nazional-popolare”, che, in altri tempi, e in un altro contesto, sarebbe stata accolta favorevolmente dai rappresentanti (ormai sedicenti tali) del popolo, è suonata quasi come un’eresia. Gli è stato addirittura rovesciato addosso, come una colpa, il fatto di aver utilizzato per questa grande rassegna ben cento opere custodite nei depositi della Galleria ospite. Che è invece uno dei meriti indubbi dell’attuale allestimento: aver valorizzato cioè un autentico tesoro nascosto, segnale anche di quel rinnovamento, da tempo auspicato e finalmente in via di realizzazione con la nomina della nuova direttrice Mazzantini, dei criteri espositivi della Gnam, riportandoli al rigore storiografico doveroso per la più importante Galleria “Nazionale” di Arte Moderna.

Quando, quasi settant’anni fa, cominciai a interessarmi al Movimento che poi sarebbe divenuto la ragion d’essere della mia attività di collezionista, l’Espressionismo (la raccolta che mia moglie e io abbiamo messo insieme, forse unica in Italia, è stata acquisita qualche anno fa da un Museo, rimanendo così fortunatamente unitaria), si discuteva ancora se quel Movimento, nato nel 1905 per opera di tre studenti di architettura di Dresda (Kirchner, Schmidt-Rottluff ed  Heckel – degli ultimi due sarei poi diventato amico e soprattutto Schmidt-Rottluff mi avrebbe aiutato a mettere insieme la collezione), rappresentasse o no una “categoria generale” dell’Arte. Ciò malgrado l’inappellabile giudizio di uno storico del calibro di Bahr. Disputa che per certi versi oggi può apparire surreale.

Meno comunque di quella che ancora aleggia intorno al Futurismo, del quale non si mette in discussione la “pregnanza” artistica, ma se sia stato o meno fascista. Non lo è stato, e soltanto chi è in malafede può sostenerlo. Basterebbe la testimonianza di Gramsci, riportata da Simongini, della quale queste sono le battute finali: “i futuristi hanno avuto questa concezione nettamente rivoluzionaria, assolutamente marxista, quando i socialisti non si occupavano neppure lontanamente di simile questione …i futuristi, nel loro campo, nel campo della cultura, sono rivoluzionari; in questo campo, come opera creativa, è probabile che la classe operaia non riuscirà per molto tempo a fare di più di quanto hanno fatto i futuristi: quando sostenevano i futuristi, i gruppi di operai dimostravano di non spaventarsi della distruzione, sicuri di potere, essi operai, fare poesia, pittura, dramma, come i futuristi”.

Solo l’eccesso di zelo che è proprio degli apostati poteva indurre Argan a impedire alla sua pupilla, la “Regina di quadri” (la mitica Palma Bucarelli), che per venti anni ha imperato sulla Gnam, di acquisire le opere più importanti dei futuristi. Che così hanno arricchito le collezioni dei musei americani. Era accaduta la stessa cosa durante l’ostracismo nazista agli artisti espressionisti (la famigerata mostra dell’ EntarteteKunst– “Arte degenerata” del 1937), le cui opere venivano prelevate dai musei tedeschi per essere distrutte, ma che in buona parte si salvarono per l’accortezza, e il coraggio, dei direttori di quei musei che le vendevano di nascosto oltreoceano. Noi allora eravamo alleati del Male e perciò nelle nostre gallerie il Movimento più importante del Novecento ha una scarsissima rappresentanza. E’ tempo di smetterla con questa sovrapposizione di elementi di giudizio. Pound è stato fascista. Forse che i “PisanCantos” non sono ugualmente un capolavoro? E Sironi? Quand’è che finalmente si farà una mostra degna della sua grandezza? C’è voluto il coraggio di un intellettuale da sempre dichiaratamente “di destra”, ma di cui, ciò nonostante, viene riconosciuta l’autorevolezza, come Giordano Bruno Guerri, per affermare (nella signorile trasmissione di Augias “La torre di Babele”) una volta per tutte, che un regime (quello fascista) che ha governato il paese per venti anni, “non può non aver fatto qualcosa di buono…” Il fascismo era e resta (i rigurgiti di esso che qua e là affiorano) un’ideologia aberrante, ma non può essere un criterio di valutazione estetica, salvo che per prodotti puramente propagandistici che, in quanto tali, difficilmente assurgono al livello di arte.

La mostra

Ma veniamo alla mostra. Cominciando dal curatore, che non viene dal nulla…, ma è figlio di quel Franco Simongini che realizzò per la Rai (quando era un vero  servizio pubblico) alcuni dei documentari più belli e importanti sugli artisti contemporanei, fra cui spicca l’intervista a De Chirico,durata tutto il tempo impiegato dal pittore per completare una tela, che giustamente viene ripetutamente riproposta come esemplare di un certo modo di coniugare il rigore scientifico con la capacità di coinvolgere un pubblico vasto. Gabriele è cresciuto perciò in mezzo all’arte e agli artisti. E’ docente all’Accademia di Belle Arti, è critico del “Tempo” (succeduto proprio al padre) e ha curato, da una ventina d’anni a questa parte, alcune delle mostre più interessanti realizzate in Italia (l’ultima, prima di questa, e altrettanto sorprendente, l’Esposizione nella sede del Museo di Roma in via del Corso, sul “Metaverso”). Il suo difetto? La sobrietà, al limite dell’umiltà (dote di chi sa veramente), il rigore, il tenersi alla larga da quel milieu di mondanità di cattivo gusto condita con qualche spolverata di “culturame”, nel quale nuotano a loro agio rivoluzionari in cachemire, gli esponenti cioè di quella gauchecaviar, diventata oggi addirittura un brand (come accadde al Cacao Meravigliao del mitico Arbore…).

Dunque, tremila metri quadrati, 26 sale, in pratica la metà degli spazi espositivi della Gnam, piene di capolavori. Mentre l’esposizione di Palazzo Grassi, intitolata il “Futurismo e i Futurismi”, si sviluppava per così dire nello “spazio”, mettendo in relazione fra loro i movimenti paralleli al Futurismo vero e proprio, generati da quello e diffusi un po’ ovunque, questa si sviluppa nel “tempo”, in verticale. Simongini apre la sua densa, approfondita, documentata (ad onta di chi non lo riteneva uno specialista del Futurismo…) introduzione al Catalogo (un bel volume edito da Treccani Gnam) con una citazione di Boccioni: “la nostra opera fresca di qualche mese precorre di almeno cento anni la sensibilità artistica italiana”, sviluppando poi ciò che questa affermazione, del 1914, implicava: “le opere esposte nelle sezioni storiche di questa rassegna devono essere viste non come esiti completamente chiusi e compiuti (ciò avrebbe fatto inorridire i futuristi …), ma come frecce indirizzate verso il futuro e soprattutto come nuclei irradianti una potenza creativa che si espanderà nei decenni successivi in tutta l’arte internazionale e perfino nei mutamenti antropologici della nostra società attuale”.

L’audace scommessa

E’ questa l’audace scommessa dell’esposizione, mostrare gli esiti di quelle “irradiazioni” e dimostrare la validità del programma (meglio, dell’utopia) futurista. Simongini non a caso insiste affinché si tenga conto del “titolo della mostra” che è “Il tempo del Futurismo”. E’ questa la sua cifra curatoriale: rintracciare, nel “Tempo”, il retaggio del movimento artistico italiano più importante del Novecento. Da ciò, non come sarcasticamente insinua un critico, peraltro non avaro di elogi, la ricerca a tutti i costi di un improbabile “ritorno al futuro”. Ma la registrazione puntuale della capacità profetica dei futuristi, quella capacità che è di tutti i movimenti avanguardistici che sono tali proprio perché aprono spiragli sul futuro. L’intento, dichiarato, programmatico, motivato adeguatamente, del curatore, è quello di far capire, attraverso una copiosa documentazione storica e testimonianze postume, quale significato abbia avuto, per tutta l’arte del XX° e anche del XXI° secolo, il Futurismo. La presenza in mostra dei tubi per i raggi X o lo spazio dato a Marconi hanno questa funzione, al tempo stesso “didascalica” (e non solo per i giovani ignari, ma anche per gli specialisti prevenuti) e scientifica, di inquadramento del Movimento nel suo “Tempo” e di squarcio illuminante su ciò che le intuizioni marinettiane o l’insistenza di tutti gli esponenti sulla velocità, avrebbero prodotto nel “Tempo” futuro, il nostro.

Il Futurismo non è una categoria generale (ammesso che l’uso di tali… categorie abbia ancora un senso, come la distinzione fra forma e contenuto, certamente desueta ma a volte imprescindibile…), nel senso che tutta la vera arte, la grande arte, è, in sé, “futuristica”. E fa vedere in una nuova luce l’arte del passato (soltanto dopo l’avvento dell’Espressionismo, si è colta pienamente la potenza drammatica di Grünewald e si è capita la straordinaria modernità di un Marasco).Fu un movimento di avanguardia, certamente, ma, come avverte Roland Barthes nel suo “All’avanguardia di che?”, la caratteristica peculiare delle avanguardie è quella di durare un solo istante ed essere immediatamente superate. Non a caso il grande Walter Pedullà (scomparso proprio in questi giorni) aveva intitolato il volume con la raccolta degli atti del convegno dedicato al centenario della nascita del movimento: “Il Futurismo nelle avanguardie” a significare proprio questa pervasività della poetica futurista.

Una volta inaugurata, finalmente, la mostra, non sono mancati gli apprezzamenti, sia per la stessa, sia per il “rappel à l’ordre” che presiede l’allestimento dell’intera Galleria, dopo le narcisistiche ricombinazioni della precedente direzione che, abolendo la cronologia, rendevano l’immenso patrimonio visivo del Museo una indistinta nebulosa. Certo, i più avvertiti potevano pure sentirsi a loro agio, essendo in grado di cogliere i sottili, spesso però affatto improbabili, nessi, e gridare a ogni scoperta un infantile “eureka”… Ma i destinatari, per così dire istituzionali, dell’esposizione permanente, i giovani soprattutto, gli studenti o i semplici visitatori, non necessariamente specialisti di arte moderna, vagavano disorientati e spesso uscivano dalle varie sale più confusi di quando erano entrati, restando nei loro occhi e nella loro testa una sorta di blob che poteva allontanarli per sempre da qualsiasi futuro contatto con le espressioni della modernità.

Ebbene, però, anche in questo caso, quasi per farsi perdonare la presa di posizione antitetica alla scomunica ufficiale decretata dalla sinistra salottiera, non mancano le riserve, le critiche, per esempio l’accusa di scarsa originalità e di pedanteria. Quando si definiscono “fin troppo didascalici” gli indispensabili pannelli didattici,si mostra di non aver colto l’essenza del progetto che, come dichiarato esplicitamente dal curatore, non è destinato agli specialisti, ma a un pubblico vasto, soprattutto di giovani. I quali, senza l’ausilio di strumenti didattici il più possibile… “didascalici”, non saprebbero assolutamente orientarsi. Senza dire che uno dei critici più… critici, (pour cause, trattandosi di uno dei co-curatori esclusi dall’allestimento definitivo) della mostra, lamenta, guarda caso, proprio la scarsità di pannelli didattici…E che significa affermare che la mostra è “priva di particolari guizzi curatoriali”?! Per fortuna! Siamo stufi di allestimenti in cui i “guizzi” dominano… Senza dire che così lo stesso critico contraddicese stesso, cioè l’elogio tributato al nuovo corso impresso alla Gnam dalla Mazzantini, la quale, con questa mostra, debutta eliminando proprio i “guizzi (o vizi) curatoriali”precedenti.

Non che non si possano muovere rilievi all’allestimento, ci mancherebbe altro, ma andrebbero motivati, con controargomentazioni, come fa ad esempio Dambruoso, uno dei primi collaboratori di Simongini, escluso in un secondo tempo. Ma alcune sono opinabili, come per esempio l’assenza di alcuni capolavori che appartengono a musei stranieri: sembra che il critico non conosca, o faccia finta, le difficoltà che si incontrano, a parte i costi, per avere in prestito opere importanti dall’estero. Altre esprimono un diverso, peraltro rispettabile, criterio espositivo, ma questo forse può spiegare il perché il curatore a un certo punto abbia deciso di proseguire da solo, non essendo possibile conciliare punti di vista opposti. La posizione dello specialista del Futurismo resta perciò una petizione di principio: non è dimostrabile la superiorità del suo criterio, se non con un ulteriore allestimento…Altre, infine, sono semplicemente gratuite, come quella relativa alla presenza del (bellissimo peraltro) idrovolante, uno di quelli che partecipò alla incredibile trasvolata atlantica di Italo Balbo. Alla ricordata mostra di Palazzo Grassi, del 1988, era esposto, proprio all’ingresso, un velivolo, mi pare un Caproni. Nessuno allora ebbe se non parole di stupore e di elogio per quella aerea presenza…

Ma se il gioco degli assenti è sempre e soltanto un gioco, facile per giunta (basti pensare ai Nobel per la letteratura: sono più importanti i premiati ogli esclusi?), c’è anche quello dei presenti… Il presidente della Fondazione Balestrini, ha protestato per la presenza di un collage di Nanni, prestato dal Museion di Bolzano, considerandola un tentativo di legittimazione di una mostra propagandistica. Non si accorge di essere lui, con tale presa di posizione, a dare un significato politico alla esposizione dell’opera. L’intento del curatore, esplicito peraltro, come nel caso dell’installazione di Marini che introduce alla visita (la “Futurpioggia” realizzata con segni grafici riportati su schede di plastica collegate da fili che scendono dal soffitto)era proprio quello di far emergere la quantità di lasciti del Futurismo. Del resto lo stesso Balestrini non aveva mai nascosto i suoi debiti verso il Movimento marinettiano. La sua “poesia visiva”, scrive Simongini, nata “integrando l’immagine nella parola scritta … recuperava materiali ritagliati nei giornali o nei rotocalchi ed estrapolava l’immagine televisiva, filmica o fotografica, manipolandoli per farsi strumento attivo di critica sociale al messaggio conformista e prefabbricato.”

Allestire una mosta è sempre un atto creativo

Si dimentica o si vuol dimenticare che allestire una mostra, soprattutto una grande mostra come questa, è sempre un atto creativo. Come anche realizzare una collezione. Si procede con un’intuizione che poi, strada facendo, man mano che le idee si sviluppano, si trasforma in un progetto, che può anche modificarsi in corso d’opera. Nel caso di un’esposizione di tale respiro, gioca un fattore decisivo, ai fini della configurazione definitiva, anche la disponibilità del materiale. A seconda di ciò che i grandi Musei, nazionali o stranieri, sono disposti a prestare, la mostra può assumere un carattere piuttosto che un altro. Perché sorprendersi dunque se il curatore, partendo(se è vero quanto riferito da Dambruoso) da un suggerimento di Sgarbi per il titolo dell’esposizione stessa “Al tempo del Futurismo”, è poi approdato a quello attuale “Il tempo del Futurismo”? La variante è minima, potrebbe sembrare insignificante, e invece denota un mutamento radicale di prospettiva. Con tutto il rispetto per il geniale Sgarbi, quella che il suo titolo ipotizzava, era una concezione più tradizionale, già ampiamente sfruttata.

La insuperata e insuperabile, per tutta una serie di ragioni, mostra di Palazzo Grassi, si muoveva su questa falsariga, una ricostruzione cioè puntuale dell’estensione “spaziale” del Movimento futurista, nel periodo in cui esplose. La semplice sostituzione di una vocale, “I” al posto di “A”, introduce invece, nella “creazione” di questo allestimento, l’elemento temporale. Il Futurismo è visto non soltanto nel momento del suo “big bang”, ma soprattutto nel suo divenire. Simongini ha colto, e ha voluto raccontare, l’essenza autentica del Movimento che, proprio nel nome scelto dal fondatore, esprime il suo inarrestabile dinamismo e l’impossibilità da parte degli storici dell’arte di fissarlo una volta per tutte in un momento particolare(“noi affermiamo … come principio assoluto del Futurismo il divenire continuo e l’indefinito progredire, fisiologico e intellettuale dell’uomo”, così Marinetti nel 1915, riportato dal curatore). E se Simongini ci è arrivato per gradi, bisogna riconoscere e apprezzare lo sforzo fatto per adeguare l’intuizione originaria a ciò che la veduta d’insieme del materiale raccolto gli veniva man mano suggerendo.

Iniziamo perciò la visita a questa grande mostra, senza atteggiamenti prevenuti, ma con il semplice desiderio di visitare un paesaggio che, anche se in parte noto, viene mostrato da angolazioni nuove, spesso sorprendenti. Si passa dentro la già citata “Futurpioggia”, per ritrovarsi, attraverso varchi rivestiti di specchi che danno già un’anticipazione di ciò che si vedrà, creando una sorta di flusso continuo, come se si venisse trasportati dalla corrente di un fiume, nella sala degli… antenati, gli stessi artisti cioè che poi daranno vita al movimento, nella loro fase prefuturista. A Vienna nel Museo dove sono esposte le opere della triade Klimt, Kokoschka, Schiele, si passa attraverso un percorso analogo: le opere del primo Klimt, per lo più ritratti classici di volti muliebri su fondo scuro, i quadri per nulla originali dello Schiele preespressionista, per poi ritrovarsi di fronte alle esplosioni,assolutamente inimmaginabili con quei presupposti, del Klimt delle Giuditte su fondi oro e dello Schiele dal segno nevrotico dei nudi della moglie o di se stesso.

Accolti da capolavori

Qui, alla Gnam, si viene accolti da un “Ritratto della madre”, di Balla, del 1904, un pastello intenso, ma nel solco della tradizione, da un “Autoritratto” di Severini, del 1904, anch’esso un pastello (prestato dalla Galleria Russo – uno dei motivi del, pretestuoso, contendere che ha preceduto l’inaugurazione: lode al curatore che ha sfidato le calunnie per poter esporre un pezzo del genere!), quindi da uno straordinario “Autoritratto” di Boccioni del 1905 (prestito questa volta – eccezionale – del Metropolitan Museum), a cui fa seguito un altro, del 1909 (proveniente dal Castello Sforzesco di Milano), nel quale già si avverte un profondo cambiamento. Nella sala successiva la prima, vera, sorpresa: accostati “Il Sole” di Pellizza da Volpedo, del 1904 (della stessa Gnam) e la “Lampada ad arco” di Balla (prestito del Moma ottenuto grazie all’insistenza dell’ex ministro Sangiuliano) del 1910, con accanto un esemplare di “lampada ad arco” proveniente dal “Museo della Scienza e della Tecnica” di Milano.

Quando dicevo che le opere in possesso della Gnam in questa mostra acquistano una luce (e una vita) diversa, mi riferivo proprio a casi come questo. Così Simongini: “sul confine fra divisionismo e futurismo, si propone eccezionalmente il dialogo diretto, fianco a fianco, fra Il Sole (1904) di Pellizza da Volpedo e Lampada ad arco (1910.11) di Balla, il suo primo quadro futurista, concesso in prestito dal MoMa di New York, per sottolineare il cambiamento epocale fra una concezione panica della natura, che rispecchia ancora un’Italia rurale e agricola, e la novità dell’elettrificazione (la “fata Elettricità”, come veniva chiamata), che esprime pienamente la “modernolatria” di cui parlava Boccioni e che ha influenzato fortemente i futuristi anche nella strutturazione formale delle proprie opere, come se fossero percorse da scariche elettriche.”

Non è possibile quicitare i trecentocinquanta capolavori presenti e gli oltre duecento pezzi (fra automobili – la Maserati rossa di insuperata bellezza di Nuvolari, il siluro“Chiribiri” della Fiat che ha realizzato un record del mondo – l’idrovolante già citato, macchinari vari, la copia dell’intonarumori di Russolo, l’ampia documentazione su Marconi e così via). Soltanto a titolo esemplificativo dell’importanza della rassegna, cito alcune presenze: nella sezione pre-futurista, tre opere straordinarie di Romolo Romani, fra cui “L’urlo”, proveniente dal Mart di Rovereto, un gesso grasso su carta del 1904, nel quale le onde sonore si sovrappongono a formare delle vibrazioni coloristiche pur in una ristretta gamma tonale; dello stesso artista un sorprendente ritratto dell’attrice Dina Galli, un disegno a matita del 1909, di stampo simbolista.

Un “Notturno in periferia” di Boccioni, del 1911, proveniente da Torino, di chiara impronta espressionista (Boccioni subì fortemente il fascino di Munch); un capolavoro assoluto di Russolo, “La rivolta”, prestito del Kunstmuseum di L’Aia, l’opera forse più importante presente in mostra (insieme con la “Lampada ad arco “ di Balla e il “Nudo che scende le scale” di Duchamp, quest’ultima la più cara dal punto di vista del valore assicurato); il bronzetto “Sviluppo di una bottiglia nello spazio” di Boccioni, del 1911; l’“Autoritratto” di Sironi del 1913; i numerosi (meritatamente) Balla, fra cui il legno dipinto, “Fiore futurista”, del 1920, a cui si collega idealmente (nel prezioso e suggestivo gioco di rimandi che l’attenta visione del curatore suggerisce) l’“Albero artificiale” di Gino Marotta, in metacrilato del 1965; i Carrà, i Depero, iPrampolini; un finalmente visibile, Schwitters, “Box – R – Bild”, una tecnica mista del 1921, tolto dai depositi, un’autentica caverna di Ali Baba…, della Gnam.

Il Futurismo “infinito”

E poi una serie di “giocattoli” fra cui spiccano i “Dieci fantocci” di Prampolini, in legno dipinto e tessuto, con i volti di gerarchi fascisti e, al centro, un Diavolo rosso, simbolo del Comunismo, su cui si abbatte il bastone del Fascismo. Va anche segnalata l’ampia sezione dedicata alla pubblicità, campo nel quale i futuristi hanno prodotto autentici capolavori, per efficacia e stile, dal giustamente famoso manifesto di Leonetto Cappiello del 1921 per il “Bitter Campari”, a quello di Depero del 1925 sempre per lo stesso amaro. La sola presenza “fascista” in mostra, il “Profilo continuo” della testa del Duce, una terracotta dipinta di nero, del 1933, di Bertelli, guardata oggi con occhi per così dire “laici”, può anche apparire,col suo vorticoso movimento rotatorio, una presa in giro… (letteralmente), del famoso “mascellone”. Infine l’ultima sezione, la più discussa, quella dedicata al “retaggio” futurista, con opere di artisti come Perilli, Turcato, Dorazio, Crippa, Fontana, Burri, Vedova, Mastroianni e soprattutto i “32 mq di mare circa”, di Pino Pascali. Simongini chiarisce le ragioni dell’inserimento in mostra di questa “coda”, rifacendosi peraltro a Germano Celant, il quale aveva “messo in evidenza… una linea evolutiva che dal futurismo, passando attraverso l’astrazione degli anni Cinquanta, conduce fino all’arte povera, capace di mettere al centro della sua ricerca l’energia, ma anche la caducità della materia, l’idea di arte/azione, l’esperibilità del gesto, la reazione al conformismo borghese.”

Oltre 300 capolavori: una mostra da vedere due volte

Malgrado l’autorevole avallo, si è scritto che le ultime sale sarebbero un prolungamento stanco e tutto sommato, inutile della mostra. Affermazione del tutto fuori luogo. La verità è che nel visitatore, dopo aver visto più di trecento capolavori, insieme con sorprendenti manufatti coevi, subentra un comprensibile senso di saturazione. Suggerirei pertanto di vedere la mostra due volte, la prima, rispettando l’ordine cronologico voluto dal curatore, la seconda al contrario, cominciando cioè dalla fine… Il ribaltamento di prospettivaapre scorci inusitati e consente di cogliere appieno l’intuizione di fondo che sta alla base dell’allestimento di Simongini, quella cioè di un Futurismo costituzionalmente “infinito”.

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