“Il Dono”: Rafael Nadal si racconta

di Rafael Nadal, pubblicato da The Players’ Tribune il 18 dicembre 2024

Quando ero piccolo, ho imparato una lezione che ho ancora impressa nella mente.
Non ricordo esattamente quanti anni avessi, ma credo intorno ai 12 anni. A quell’età mi piaceva moltissimo andare a pescare. Amo il mare perché sono di Maiorca e fa parte della mia vita. La sensazione di stare lungo la riva, seduto sugli scogli con la famiglia e gli amici, o su una barca, la disconnessione e la pace che si provano sono qualcosa di speciale. Un giorno andai a pescare invece di allenarmi. Il giorno dopo persi la mia partita. Ricordo che, tornando a casa, stavo piangendo in macchina, e mio zio, che a quella giovane età aveva una grande influenza su di me, e che fu colui che mi ha fatto innamorare del tennis, mi disse: “Va bene, è solo una partita di tennis. Non piangere ora, non ha senso. Se vuoi pescare, puoi farlo. Non c’è problema. Ma perderai. Vuoi vincere? Se vuoi vincere, prima di tutto devi fare ciò che serve.” È stata una lezione molto importante per me. Se la gente mi vede come un perfezionista, è anche grazie a quella voce interiore che sentii quel giorno in macchina tornando a casa. Quella voce non mi ha mai abbandonato. Un giorno potrò stare al mare, ma oggi e domani devo allenarmi.

Da bambino, non avevo davvero idoli sportivi.
Suppongo che abbia a che fare con il mio carattere maiorchino. I miei eroi erano persone che conoscevo nella vita reale. Quando avevo 12 anni, ebbi l’occasione di giocare per la prima volta con Carlos Moyà, un connazionale spagnolo, anche lui di Maiorca, campione del Roland Garros e il primo giocatore spagnolo a diventare numero uno al mondo. Ero molto nervoso anche solo per scambiare qualche palla con lui. Fu un’esperienza indimenticabile, una finestra su un altro mondo. Il tennis si stava trasformando dall’essere solo un divertimento, un gioco da bambini, a diventare un vero obiettivo. Mi fece sognare un po’ di più: un giorno, forse, potrò giocare anch’io al Roland Garros.

Il dolore è uno dei più grandi maestri della vita.
Mi sono infortunato quando avevo 17 anni e mi dissero che probabilmente non avrei mai più potuto giocare a tennis a livello professionale. Ho imparato che tutto può finire in un istante. Non si tratta solo di una piccola frattura al piede, è una malattia. Non c’è cura, solo trattamenti. È la Sindrome di Müller-Weiss: cosa significa? Passi dalla più grande gioia a svegliarti la mattina successiva senza riuscire a camminare. Ho trascorso molti giorni a casa piangendo, ma è stata una grande lezione di umiltà. Sono stato fortunato ad avere un padre, la vera influenza che ho avuto nella mia vita, che è sempre stato così positivo. “Troveremo una soluzione”, mi diceva. “E se non la troviamo, ci sono altre cose nella vita oltre al tennis.” Sentendo quelle parole, a malapena riuscivo a comprenderle, ma grazie a Dio, dopo tanto dolore, interventi chirurgici, riabilitazione e lacrime, abbiamo trovato una soluzione, e per tutti questi anni, sono riuscito a combattere e ad andare avanti.

Il tennis è uno sport che richiede molto mentalmente, ma ci sono tanti momenti di gioia che non dimenticherò mai.
La Coppa Davis nel 2004, il Roland Garros nel 2005, ovviamente Wimbledon nel 2008. Anche il mio primo US Open, o quando ho completato il ciclo del Grande Slam a Melbourne. Non posso dimenticare tornei come Madrid e Barcellona nel mio paese, Indian Wells, Miami o Cincinnati, dove ho vinto per la prima volta nel 2013, o la bellissima Montecarlo, o la sensazione speciale di Roma, o Shanghai e Beijing con quei tifosi straordinari. Canada, Messico, Cile, Brasile, i miei primi giorni a Buenos Aires. Così tanti ricordi incredibili. Tuttavia, non puoi mai smettere di impegnarti. Non puoi mai rilassarti. Devi sempre migliorare, e questa è stata la costante della mia vita: superare i miei limiti per crescere. È così che sono diventato un giocatore migliore.

Per 30 anni, l’immagine che ho trasmesso al mondo non è sempre stata quello che sentivo dentro di me.
Sinceramente, sono stato nervoso prima di ogni partita che abbia mai giocato, e quella sensazione non ti abbandona mai. Ogni sera, prima di un incontro, andavo a letto pensando che avrei potuto perdere (e anche al risveglio la mattina!). Nel tennis, le differenze tra i giocatori sono davvero sottili, e tra rivali lo sono ancora di più. Quando entri in campo, può succedere di tutto, quindi tutti i sensi devono essere vigili. Quella sensazione, il fuoco interiore, i nervi e l’adrenalina di entrare e vedere gli spalti pieni, è un’emozione difficile da descrivere. È qualcosa che solo pochi possono capire e sono sicuro che non sarà mai più la stessa ora che mi sto ritirando dal tennis professionale. Ci saranno ancora quei momenti quando giocherò esibizioni e forse anche altri sport. Continuerò sempre a competere e cercherò di dare il meglio di me, ma non sarà più la stessa sensazione di entrare in campo davanti ai tifosi di qualsiasi stadio.

Per gran parte della mia carriera, sono stato bravo a controllare queste emozioni, con un’eccezione.
Qualche anno fa, ho attraversato un momento molto difficile dal punto di vista mentale. Il dolore fisico era qualcosa a cui ero abituato, ma ci sono stati momenti in campo in cui avevo problemi a controllare la respirazione e non riuscivo a giocare al mio massimo livello. Non ho problemi ad ammetterlo ora. In fin dei conti, siamo esseri umani, non supereroi. Il giocatore che vedi al centro del campo con un trofeo è una persona: esausta, sollevata, felice, grata, ma pur sempre una persona. Fortunatamente, non sono mai arrivato al punto di non riuscire a gestire cose come l’ansia, ma tutti i giocatori attraversano momenti in cui è difficile mantenere il controllo mentale, e quando succede, è complicato avere il controllo totale del proprio gioco. Ci sono stati mesi in cui ho pensato di prendermi una pausa dal tennis per liberare la mente. Alla fine, ci ho lavorato ogni giorno per migliorare. Sono riuscito a superare quel periodo continuando sempre ad andare avanti, e lentamente sono tornato a essere me stesso. La cosa di cui sono più orgoglioso è che, nonostante le difficoltà, non mi sono mai arreso. Ho sempre dato il massimo.

Il tennis è anche un maestro di vita.
La maggior parte delle volte non vinci il torneo a cui partecipi; non importa chi tu sia, alla fine della maggior parte delle settimane esci sconfitto. La vita reale è uguale. Impari a convivere con i momenti di gioia e con quelli di sofferenza, e cerchi di affrontarli con lo stesso spirito. Nei momenti positivi, non mi sono mai creduto Superman, e in quelli negativi, non ho mai pensato di essere un fallimento. Ciò che ti fa crescere come persona è la vita stessa: le sconfitte, i nervi, il dolore, la gioia, il processo di svegliarsi ogni giorno e provare a migliorare per raggiungere gli obiettivi.

In fondo, alla fine, si riceve ciò che si dà.
Spero che la mia eredità sia che ho sempre cercato di trattare gli altri con profondo rispetto. Questa era la regola d’oro dei miei genitori. Da bambino, mio padre mi diceva sempre: “Inventare è difficile. Copiare è molto più facile.” Non parlava di tennis, si riferiva alla vita. Guarda intorno a te e osserva le persone che ammiri. Guarda come trattano gli altri, cosa ti piace di loro. Comportati come loro e forse riuscirai a vivere una vita felice. Ho portato con me questa lezione in ogni partita che ho giocato. Non ero mosso dall’odio verso i miei avversari, ma da un profondo rispetto e ammirazione. Ogni giorno mi svegliavo cercando di migliorare, anche solo un po’, per essere al loro livello. Non sempre ci sono riuscito! Ma ci ho provato, ci ho sempre provato.

Per più di 30 anni, ho dato tutto ciò che potevo a questo sport.
In cambio, ho ricevuto gioia e felicità, amore e amicizia, e molto altro ancora.

Con affetto,
Rafa

Traduzione di Annalisa Midali

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