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“Alessia Pifferi ha fatto morire la figlia per fare un lungo fine settimana con il compagno”. Le motivazioni della condanna all’ergastolo

“Alessia Pifferi ha fatto morire la figlia per fare un lungo fine settimana con il compagno”. Le motivazioni della condanna all’ergastolo

Alessia Pifferi, condannata all’ergastolo per aver abbandonato a casa da sola per quasi 6 giorni la piccola Diana, poi morta “di stenti e disidratazione”, è stata animata da un “futile ed egoistico movente” ossia “regalarsi un proprio spazio di autonomia” cioè “un lungo fine-settimana con il proprio compagno” venendo meno “al prioritario diritto/dovere di accudire […]

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Alessia Pifferi, condannata all’ergastolo per aver abbandonato a casa da sola per quasi 6 giorni la piccola Diana, poi morta “di stenti e disidratazione”, è stata animata da un “futile ed egoistico movente” ossia “regalarsi un proprio spazio di autonomia” cioè “un lungo fine-settimana con il proprio compagno” venendo meno “al prioritario diritto/dovere di accudire la figlioletta” di un anno e mezzo. E così facendo ha commesso un reato di “elevatissima gravità, non solo giuridica, ma anche umana e sociale”. Lo scrive la Corte d’Assise di Milano nelle motivazioni della sentenza con cui, lo scorso 13 maggio, ha condannato la donna, allora 36enne, al carcere a vita per omicidio aggravato da futili motivi e dal vincolo di parentela: con il suo comportamento ha “ucciso”, anche se non intenzionalmente, la bimba.

Nelle 53 pagine firmate da Alessandro Santangelo, il giudice estensore, e dal presidente della Corte, Ilio Mannucci Pacini, oltre alla ricostruzione di quando il 20 luglio di due anni fa venne ritrovata la piccina priva di vita nel suo lettino da campeggio, con a fianco solamente un biberon e una bottiglietta d’acqua vuoti e sul mobile una boccetta di En – un tranquillante che, è risultato, Alessia Pifferi le avrebbe dato nelle precedenti settimane e in dosi piccole – si riporta l’esito della perizia psichiatrica in cui si sostiene che la donna era capace di intendere e di volere. Infatti, si osserva, “per sua stessa ammissione (…) aveva certamente coscienza del disvalore della propria condotta di abbandono e della pericolosità (…) per Diana” e, quindi, è ragionevolmente certo avesse previsto i seri rischi che correva la piccola: l’ha lasciata senza una babysitter e senza le cure necessarie in un appartamento nella periferia milanese per trascorrere del tempo con il compagno che non era il padre della bimba. Appartamento in cui nel frigorifero e nella dispensa non c’erano pappe e altri “alimenti per bambini”, mentre in sala, in un borsone e in un trolley, sono stati trovati molti abiti, circa una trentina, prevalentemente da sera.

Per la Corte, inoltre, “non può tuttavia nemmeno sottacersi” che la 36enne, abbandonando la figlia anche nei fine settimana precedenti, si era “certamente” resa conto “delle precarie condizioni” in cui la cresceva. Per tali e altre ragioni, “non v’è dubbio che lasciare Diana da sola in casa, con la consapevolezza di esporla anche al rischio di morire di stenti e disidratazione, per regalarsi un proprio spazio di autonomia, nella specie un lungo fine-settimana con il proprio compagno, non può che inverare la circostanza aggravante dei futili motivi” che si aggiunge a quella dettata dal rapporto madre e figlia. In più, “tenuto conto dell’elevatissima gravità, non solo giuridica, ma anche umana e sociale, del fatto reato in contestazione e del futile ed egoistico movente” non è stato possibile concedere a Pifferi le attenuanti generiche, per via anche del comportamento processuale “valutato negativamente” in quanto caratterizzato da “deresponsabilizzazione“: ha accampato, per giustificarsi, “circostanze oggettivamente e scientemente false”, scaricando pure la “responsabilità morale” della tragedia sul compagno. Segno, questo, di una “carente rielaborazione critica del proprio agito omicidiario”.

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